Marina Abramovič e Ulay: l’arte spietata raccontata sulle note dei Baustelle

Marina Abramović, The Artist Is Present, MoMa, New York, 2010.

Un tavolo e due sedie. È molto semplice. Non c’è quasi niente. C’è solo l’artista che sta là come una montagna. Una roccia. E ti guarda negli occhi.”

Un riferimento esplicito, quello di Marina, alla “The Artist Is Present” presentata al MoMa di New York nel 2010, dove la GrandMother Of Performance, come lei stessa si è definita, sedeva ad un tavolo, sfidando il visitatore a mettersi di fronte a lei e a perdersi nel suo sguardo. L’artista è imperturbabile: uno specchio, quello dell’inconscio, un’occasione per sondare le potenzialità del silenzio e degli occhi. Perché da lì non si sfugge. E di fronte a quegli occhi, che ti fissano e ti scrutano, è difficile non gridare la verità. In silenzio. Un tempio senza tempo, una sorta di seduta psicanalitica. A farla crollare è Ulay, che come un visitatore qualsiasi si siede al tavolo e fissa l’amore della sua vita che cede ad ogni resistenza, scivolando nel pianto.

Ma cos’è la performance art e chi sono Marina e Ulay?

Una performance – o azione performativa – è un evento o la messa in scena di un’azione programmata realizzata da uno o più artisti, generalmente alla presenza di un pubblico. È un teatro interattivo dove il pubblico partecipa allo spettacolo e diventa parte stessa della rappresentazione.
Non un quadro dunque, ma un’azione esibita di fronte ad un pubblico. Ciò che l’artista fa è arte. Il corpo stesso dell’artista diviene il medium artistico, lo spettatore lo ammira o, altre volte, può intervenire e dialogare con l’azione in corso.

Derivando dalle speculazioni filosofiche di Sartre e Heidegger, si insinua nel panorama teatrale degli anni ‘70, dal quale nasce l’espressione Body Art, che racchiude, tra le altre cose, anche la performance.

In precedenza, già Duchamp aveva fatto del proprio corpo materia d’arte facendosi fotografare da Man Ray nel personaggio femminile di Rrose Selavy e, prima di lui, anche il Surrealismo e l’atteggiamento bohemien avevano anticipato l’importanza del corpo. A differenza dell’arte visuale, della pittura o della scultura, con la performance art non si vuole creare un oggetto artistico ma qualcosa che esiste nel momento in cui si sta svolgendo.

Lo scopo è coinvolgere e sconvolgere, far riflettere il pubblico che vi assiste.

I Performers and lovers, behind the scenes

Marina Abramovič (in serbo Марина Абрамовић) nasce a Belgrado il 30 novembre 1946 nel clima oppressivo della Jugoslavia postbellica, da genitori autoritari e comunisti: “Prima eroi di guerra, poi membri di rilievo del Partito, erano fissati con il coraggio, la disciplina marziale, la determinazione. Siccome ero terrorizzata dall’acqua, a sei anni mio padre mi buttò giù dalla barca e si allontanò a remi: a furia di bere e scalciare, imparai a tenermi a galla. Mia madre invece era ossessionata dall’ordine e dalla pulizia: la notte mi svegliava urlando, se dormivo scompigliando le coperte. E al minimo sgarro mi picchiava fino a farmi blu. Abuso di minore? Probabilmente. Ma quei maltrattamenti mi hanno fatto diventare quel che sono. Devo il mio successo a quelle regole umilianti, alle pene fisiche, allo spauracchio di mia madre. Da lei ho ereditato anche terribili emicranie, che sono state una valida palestra per imparare a tollerare il dolore.”

Marina Abramović, Rhythm 5, 1974. Foto: Nebojsa Cankovic.
Marina Abramović, Rhythm 5, 1974. Foto: Nebojsa Cankovic.

Tra le più emblematiche, dove cerca in ogni modo di esplorare e superare i propri limiti fisici e mentali, vi è “Rhythm 5”, il numero si riferisce ad una stella a cinque punte che, intrisa di petrolio, venne accesa all’inizio della performance: dopo aver tagliato i capelli e unghie di mani e piedi, si lancia nel fuoco che brucia davanti a lei. Un fuoco che rappresenta un rituale di purificazione. All’interno della stella non si rende conto della mancanza di ossigeno causata dal fuoco e sviene. Il pubblico si accorge del pericolo solo quando il fuoco inizia a lambirle le gambe e la salva.

Ulay, S’he, 1973, Auto-Polaroid
Ulay, S’he, 1973, Auto-Polaroid type SX 70, 3 1/10 × 3 1/10 in 7.9 × 7.9 cm

Ulay, pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, nasce a Solingen il 30 novembre 1943 sotto le bombe degli alleati, appartiene alla generazione di uomini che han visto la luce sotto la guerra, sono cresciuti con il senso di colpa per i padri nazisti e hanno raggiunto la maggiore età come cittadini di un paese spezzato. Durante tutta la carriera rimane fedele al proprio motto: “L’estetica senza etica è cosmetica”. Rigoroso e coerente, preferisce lavorare senza compromessi, anche a costo di rimanere ai margini del mercato. È la fotografia a iniziarlo nel suo percorso artistico, sperimenta quella analogica e la polaroid sviluppando un progetto radicale sull’identità: gioca con il suo doppio femminile, progetta cicli di lavori sul gender. Sceglie titoli come “S’he” o “Pa-ulay” mettendoli in scena dividendo, truccando e vestendo il suo corpo metà uomo e metà donna.

Amsterdam: noi due, il cane, l’universo

Il giorno del compleanno, giorno che strappava ogni anno dall’agenda, perché a suo dire era sempre stato infelice, Marina è ad una galleria ad Amsterdam dove rimane spiazzata e quasi divertita, da questo stravagante artista tedesco che porta barba e capelli lunghi solo da una parte del viso. Lui rimane folgorato dalla sua genialità.

Da quel momento il 30 novembre smise di essere l’odioso promemoria della fuga del tempo e divenne piuttosto il simbolo di un’unione felice vissuta simbioticamente. In una lettera spedita alla madre: “Quest’anno festeggeremo il compleanno nel deserto attorno a un falò. Io compirò trentaquattro anni e Ulay trentasette. Non mi sono mai sentita così giovane come adesso”.

Marina e Ulay, That Self, Bologna, 1977
Marina e Ulay, That Self, Bologna, 1977

Nasce “The Other”, il risultato partorito dalla loro fusione artistico-sentimentale, portato a spasso per l’Europa su un leggero furgoncino e cresciuto con le giuste dosi di sperimentazione e follia: nessun posto fisso in cui vivere, movimento perenne, contatto diretto, relazione locale, autoselezione, oltrepassare i limiti, rischiare, energia mobile, nessuna prova, nessuna fine prevedibile, nessuna ripetizione, vulnerabilità estesa, apertura al caso, reazioni primarie.

Marina e Ulay, Rest Energy, 1980, Filmstudio Amsterdam.
Marina e Ulay, Rest Energy, 1980, Filmstudio Amsterdam.

Queste le caratteristiche programmatiche del loro gioco provocatorio, estremo, intenso tanto da rischiare persino la vita: se in Death Self” sigillano le loro bocche in un bacio soffocante che li costringe a respirare l’aria emessa dall’altro fino al collasso, giunto dopo 17 minuti, in “Rest Energy” i due sono in piedi, con i corpi tesi e inclinati. Ulay stringe una freccia caricata su un arco che Marina sorregge. La freccia è puntata sul petto di Marina, in un’estrema e pericolosa metafora della forza e del rischio che ognuno di noi investe in una relazione.

Marina e Ulay, Death Self, Belgrado, 1977
Marina e Ulay, Death Self, Belgrado, 1977

Nelle perfomance si denudano guardandosi negli occhi senza dire una parola per più di 8 ore. Si schiaffeggiano. Si insultano e urlano contro fino a perdere il fiato. Fin quando le loro voci si mescolano in un unico suono indistinto, quasi fossero i protagonisti di un testo dei Baustelle:

noi ci siamo amati
violentati
deturpati
torturati
maltrattati
malmenati
scritti lettere lo sai.

non ci siamo amati
divertiti
pervertiti
dimenati
spaventati
rovinati
licenziati
lo saprai

Tuttavia l’intensità messa a disposizione nella loro arte risulta essere distruttiva, inizia a svuotarli, la fusione diventa confusione: Ciò che ne risentiva era il nostro amore. Quelle performance sfinivano i nostri sentimenti.” dirà Marina.

The Lovers, 2.500 chilometri

Con un’ultima esibizione decidono di porre fine alla loro storia, percorrendo la Muraglia Cinese l’uno da un capo e l’altra dall’altro, incontrandosi al centro per dirsi addio.

Marina e Ulay, The Lovers, 1988, Muraglia Cinese
Marina e Ulay, The Lovers, 1988, Muraglia Cinese

Gli 8 mesi di preparativi e i 3 di viaggio del torbido cammino sembrano sufficienti a Ulay per mettere incinta la sua interprete, tanto che nel momento in cui si rivedono e lui confessa, mettono in scena un dialogo ai limiti della realtà, dalla scia comica: 

U: “Che cosa devo fare adesso?” 

M: “Non lo so, io me ne vado.”

Marina, Balkan Baroque, 1997, Biennale di Venezia.
Marina, Balkan Baroque, 1997, Biennale di Venezia.

Marina continua con le sue performance più pazze, riciclando la sua arte nella rincorsa del guadagno e del successo, mettendo in pratica gli utili insegnamenti militari materni: “Nella vita di tutti i giorni detesto il dolore fisico. Lo accetto (e sconfiggo) solo durante le mie performance. Perché ho imparato, nelle mie lunghe frequentazioni dello sciamanesimo e delle filosofie orientali, che il dolore è un muro, straziante, insopportabile, ma chi riesce a trapassarlo accede a un diverso stato di consapevolezza. A una nuova fonte d’energia. Illimitata. E la Marina impaurita diventa la Marina eroica. Una sensazione inebriante. Che raggiungo solo davanti al pubblico, perché è dagli spettatori che traggo forza. Senza di loro non arriverei in fondo.” 

Ulay sposa la sua interprete ma continua tutto il tempo a condannare Marina di essere troppo teatrale, di fingere, di vendere le loro opere senza il suo consenso.

Converse nere

8 anni dopo la fine del loro amore, 20 anni dopo da quando si erano amati e odiati, punzecchiati e accusati, si rivedono in una gremita sala del MoMa: lei con un lungo vestito rosso da guru, in silenzio e immobile come una sfinge mentre si esibisce da 716 ore, lui come uno dei tanti visitatori con un paio di Converse nere.

Nel momento in cui incrociano nuovamente lo sguardo (la performance prevede che Marina chiuda gli occhi e li riapra per vedere il nuovo visitatore), si limitano a guardarsi e ad urlare, questa volta in silenzio, la propria nostalgia.

Clelia Sinisi

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.