“L’ultimo samurai” e le tragedie di Corneille insegnano il valore dell’onore e del sacrificio

Lottare fermamente e rimanere fedele al proprio ideale incondizionatamente, fino alla fine: questo e molto altro caratterizzano il film sui guerrieri nipponici e le opere del drammaturgo francese. 

Una scena del film “L’ultimo samurai” con i due protagonisti Captain Nathan Algren (Tom Cruise) e Katsumoto (Ken Watanabe)

Immaginate di dover combattere per un valore, un ideale o un’entità più grande di voi, di dover rinunciare alle vostre libertà personali, ai vostri amori o persino alla vostra vita nel nome di quella battaglia. Sareste disposti anche a dare la vita per la vostra società, per la patria, per l’onore? Rifletteteci pure su, ma intanto eccovi alcuni esempi di individui che, bene o male, custodivano la risposta nel loro cuore fin dall’inizio. Il valore di una civiltà dalla tradizione e dagli usi millenari oppure quello della patria romana nella lotta contro Albalonga, o ancora l’onore di una famiglia da salvaguardare sono tutte ragioni che spingono un uomo a compiere persino il sacrificio estremo.

Nel nome della civiltà e dell’onore

Nel 2003 uscì il film “L’ultimo samurai“, diretto da Edward Zwick e destinato a diventare un prodotto famosissimo per la narrazione e per la storia toccante che andava a rappresentare: quella del sacrificio di un’intera casta di signori-guerrieri, i famosi Samurai, nel nome del mantenimento di uno status quo ormai impensabile. Seguendo le orme di un personaggio totalmente estraneo alla vita e alla cultura giapponese, ovvero Tom Cruise nei panni dell’alcolizzato ed ex capitano dell’esercito statunitense Nathan Algren, ci addentriamo piano piano in quella che è stata una sanguinosa fase di transizione nella storia del Giappone: una lotta interna tra imperatore e dissidenti della casta dei samurai appunto, di cui fa parte la cosiddetta “Ribellione di Satsuma” che viene mostrata nel film. A fine Ottocento, infatti, il Giappone attuò una serie di riforme interne a livello economico, sociale e politico per avvicinarsi maggiormente alle potenze occidentali come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Olanda, che a quell’epoca la facevano da padroni in Asia con le loro numerose colonie anche grazie a un gap tecnologico e culturale molto marcato. Il giovane imperatore giapponese Mutsushito vide nelle grandi potenze occidentali un modello a cui adeguare forzatamente il suo regno, così che fece in modo di riformare e stravolgere completamente i privilegi feudali, le regole economiche e sociali accettate della tradizione per avviare una progressiva modernizzazione e industrializzazione dell’Impero. Complice l’appoggio degli investitori americani e inglesi (di cui si fa simbolo proprio il personaggio di Tom Cruise) che gongolavano per via della possibilità di investimenti fruttiferi a basso costo iniziale, questo tipo di riforme ebbe il sopravvento sulla struttura vecchio stampo della società giapponese, anche se, per vincere la strenua difesa dei tradizionalisti, ci volle molto tempo.

L’imperatore giapponese Mutsuhito Meiji

I più accaniti difensori erano i Samurai, una casta di signori feudali che avevano un vero e proprio culto della guerra, dell’arte del combattimento, ma soprattutto dell’onore e della fedeltà. I loro ideali si mantennero sempre intonsi e li guidavano nella battaglia contro il mostro della modernità, che si abbatté sul Giappone innescando il male più pericoloso: una guerra civile. Nel film i Samurai, che come detto sono veri e propri artisti della guerra, all’inizio hanno la meglio su un esercito addestrato alla buona dallo stesso Nathan Algren, inviato dagli USA appositamente per addestrare in modo adeguato le truppe imperiali all’uso delle armi da fuoco appena introdotte sull’isola. Ma, con il passare del tempo, le truppe imperiali riescono ad apprendere meglio le tecniche di guerra e allo stesso tempo aumentano di numero, mentre i Samurai subiscono sempre più perdite. Nonostante questo non mollano mai, continuano a combattere nella loro guerra folle contro un nemico nettamente più grande di loro. Questo perché credono fermamente nei loro ideali, nella loro tradizione, se vogliamo anche nella loro libertà e questi sono motivi che vanno al di là della loro stessa vita. E se ne accorge anche Algren, passato per un caso fortuito dalla parte dei Samurai e dei quali sposa gli ideali e le motivazioni della lotta. Questi sono valori per cui vale la pena morire, per cui la morte è un onore. Già, l’onore, quello che impone loro il famosissimo harakiri, il suicidio obbligato in caso di comportamento disonorevole. Quello stesso onore che li rende ancora più motivati nella loro battaglia, perché morire per i propri ideali, per le tradizioni e per il Giappone (di cui i Samurai ritengono essere ancora i degni e soli rappresentanti) è quanto di più onorifico ci sia. Vale la pena morire per salvare la storia di una nazione, la storia di una casta e tutti quei valori che ormai si stanno perdendo definitivamente.  Solo onore bisogna riconoscere a chi ha combattuto una guerra già persa, come dimostra l’omaggio reso dalle truppe dell’imperatore (pur sempre giapponesi anche loro) agli ultimi Samurai allo sbaraglio, molto simili in questo caso agli Spartani alle Termopili. Quell’onore nel nome del quale è giusto sacrificare ciò a cui si tiene di più: l’amicizia, l’amore, la vita.Nel nome di qualcosa di più grande è giusto, forse obbligatorio, alienare se stessi e i propri desideri, mettere le proprie egoistiche ambizioni e gli affetti: questo pensano i Samurai e questo, vedremo, è quello che fanno i personaggi di Corneille.

Ritratto di Pierre Corneille (1606-1684)

Nel nome della famiglia

L’onore è assoluto protagonista del film di Zwick ma anche di tutte le manifestazioni e preconcetti culturali che emergono quando si parla di Samurai. Ma il ruolo dell’onore, forse con intensità minore, c’è sempre stato anche da noi. Vedasi il suddetto esempio degli Spartani o i grandi sacrifici della storia (o forse più dell’epica) romana. E alla classicità attinse molto un autore come Pierre Corneille, uno dei tre grandi drammaturghi del Seicento francese insieme a Molière e Racine. Corneille era molto preparato sui classici, tanto che molte delle sue opere teatrali sono ambientate nella latinità, nella Roma imperiale ma anche quella delle origini. Ma, come da prassi del suo secolo, attinse molto anche alla tradizione spagnola e italiana, quelle due culture che, in quel periodo, dettavano legge in ambito teatrale e poetico, epico e romanzesco. In più, per gli argomenti di questo articolo, ci tornerà utile sapere anche che la sua formazione scolastica avvenne in un collegio gesuitico e che trasportò nelle pièces teatrali molti aspetti del pensiero della Compagnia di Gesù, tanto che ne fu definito il campione letterario, contrapposto all’ esponente culturale di punta del Giansenismo, ovvero Racine. La prima tragedia con cui Corneille ottenne successo venne inscenata nel 1639: era “Le Cid“, vicenda ispirata al famoso poema spagnolo del Cid ma più direttamente da una dramma di Guillèn de Castro, appena precedente a quella del francese. Si narra, in questa vicenda che rappresenta una piccola parte delle gesta eroiche del Cid, dell’amore di quest’ultimo per una ragazza, la bella Chimene, un amore ricambiato ma ostacolato dai padri dei due innamorati. I genitori (Don Diego per Rodrigo-Cid e Don Gomez per Chimene) litigano per via della decisione del re di affidare ad uno dei due il ruolo di precettore del figlio. Addirittura Don Gomez schiaffeggia don Diego, il quale pretende giustizia perché, con quel gesto, la controparte ha offeso l’onore della famiglia. Dato che Don Diego è troppo anziano e Don Gomez è molto più giovane, tocca a Cid-Rodrigo sfidare a duello il padre della sua fidanzata.

Il Cid è l’eroe dell’epica spagnola, colui che ha sconfitto gli Arabi (o Mori) nel processo di Reconquista. La tragedia di Corneille racconta un episodio secondario

Eccoci dunque giunti al bivio, il dilemma corneilliano: Cid è chiamato a scegliere se lasciar perdere tutto per amore di una donna o preservare l’onore della famiglia compromettendo per sempre la sua relazione con Chimene. E sempre qui si vede la poetica di Corneille, i cui personaggi hanno un’immensa forza d’animo che gli permette di sacrificare se stessi, anche ciò a cui tengono maggiormente, pur di preservare o di combattere per un valore più grande, assoluto, proiettato verso l’alto e verso il bene. Un nulla è il suo amore in confronto al nome e all’onore della famiglia. Ma la scelta di Cid non sarà facile: soffrirà moltissimo nel dover dire addio a Chimene, però in assoluta libertà prende la decisione più eroica e onorevole. Questo è importante, perché i personaggi di Corneille non sono mai obbligati nelle scelte ma possono ponderare le opzioni e prendere decisioni. Sono sempre di fronte al bivio che divide ciò che vogliono da ciò che devono, due strade che mai coincidono. E allora Cid-Rodrigo sceglie di battersi in duello con Don Gomez e alla fine la spunterà il primo. Dunque ora spetta a Chimene la decisione di chiedere giustizia al re per l’omicidio del padre oppure salvare l’amato ma non sposarlo mai. Anche lei propenderà per la soluzione meno egoista e più giusta, dando così origine alle restanti peripezie ed equivoci della tragedia. Lei confessa ancora di amarlo ma resta irremovibile sulla decisione, lui vorrebbe essere ucciso da lei in persona per il grande senso di colpa ma sempre Chimene rimette il giudizio al re perché così è giusto. Il re però non può rinunciare ad un condottiero così forte che, nel frattempo, riesce a sconfiggere gli arabi che tentano di invadere la penisola. Tutti a questo punto cercano di convincere Chimene che la situazione è cambiata ma lei rimane impassibile: l’onore della sua famiglia è stato macchiato, giustizia va fatta. Chimene, nella sua cocciutaggine, è una grandissima eroina di Corneille e, a tutti gli effetti, si avvicina per determinazione e forza d’animo ai Samurai di Zwick.

“Il giuramento degli Orazi” di Jacques-Louis-David (1784)

Nel nome della patria

Abbiamo detto che è importante il fatto che la formazione e gli ideali di Corneille siano di stampo gesuitico. Questo perché egli esaltava il libero arbitrio dell’uomo che spinge quest’ultimo ad agire sempre per il bene e non per un bene qualsiasi ma quello massimo, slanciandosi verso Dio. Perciò, quando i personaggi di Corneille sono chiamati a fare una scelta (che è direttamente collegata al libero arbitrio e alla facoltà di scegliere), prendono sempre la decisione più giusta per il bene comune, per quello universale, mettendo in secondo piano o addirittura trascurando ciò che desiderano o la loro felicità o la loro vita. Quindi è questa condizione di fondo che muove Rodrigo e Chimene nelle loro decisioni e che condiziona tutta un’altra grande tragedia di Corneille, “Horace“, del 1642. Qui l’ambientazione è romana, come altre volte ha fatto Corneille in virtù della sua erudizione in materia dei classici. La fonte dell’episodio è naturalmente l’ Ab urbe condita di Tito Livio. Nella vicenda si vede che Roma e Albalonga sono in guerra e viene deciso di risolvere la contesa scegliendo dei campioni da una città e dall’altra e facendoli duellare. La scelta ricade sui tre fratelli Orazi per Roma e sui tre Curiazi per Alba. I tre si affrontano in duello dove due Orazi muoiono mentre il terzo scappa, non per vigliaccheria (cosa di cui sarà accusato) ma per poter affrontare separatamente gli avversari e non tutti insieme. Alla fine l’ultimo Orazio uccide tutti i Curiazi e trionfa, venendo poi assolto dall’accusa disonorevole di vigliaccheria. Ciò che conta, in questa tragedia fitta di morte, non è tanto l’episodio famosissimo del duello, ma i rapporti umani tra i personaggi. Corneille, infatti, immagina che Camilla, sorella degli Orazi, sia amante di uno dei Curiazi e che Sabina, d’altro canto, sia amante di un Orazio pur essendo sorella dei suoi avversari. Questi incroci tra famiglie creano un legame apparentemente indissolubile, quello di sangue e dell’amore, ma nulla ferma la decisione di decidere con un duello le sorti della guerra. La patria viene prima di tutto e ad essa va sacrificato tutto, anche l’affetto familiare e i sentimenti passionali. A nulla valgono le suppliche e i pianti delle due ragazze, a nulla serve sapere che ormai uno dei nemici è anche il proprio cognato (la specularità continua della tragedia è un tocco di classe di Corneille) perché la patria chiama e l’onore della propria famiglia non va macchiato in alcun modo. Anche qui viene presa una decisione tra il proprio orticello, quello dei piccoli legami familiari pacifici e il bene comune, quello che risponde alla chiamata a servire la propria città e a far terminare una sanguinosa guerra, si spera, con una vittoria. Di nuovo una scelta difficile e sofferta, e, mentre l’Orazio fidanzato di Camilla quasi con entusiasmo propende per lo scontro, il Curiazio fidanzato con Camilla sarà molto più dilaniato dentro di sé (topos del superiore eroismo dei romani che incontra il dubbio tipico di Corneille). La decisione dunque ricade ancora sul sacrificio di sé che, in questa occasione, è ingrandito dalla presenza, tutt’altro che secondaria, delle due sorelle. Perciò si combatte, procurando dolori immensi alle due ragazze, tanto che Camilla, sorella dell’Orazio vincitore e unico superstite, maledice lui e Roma per il dolore arrecatole. Aveva appena perso un fidanzato e due fratelli, ma Corneille fa capire che si tratta di un male necessario, un male rivolto al bene supremo della pace e della vittoria della città, valori a cui sicuramente è doveroso (e onorevole) sacrificare anche la propria vita, qualora fosse indispensabile. E l’onore rimane al centro della tragedia anche perché Orazio Maior, padre dei tre fratelli, è molto arrabbiato per la vergognosa fuga del figlio che rappresenta un’onta imperdonabile per la famiglia, perciò si decide ad ucciderlo. Per essere chiari: vuole uccidere il figlio perché si è messo in salvo per poi vincere il duello con astuzia. Appare evidente che l’onore travalichi qualsiasi barriera socialmente accettata. Samurai, Orazi, condottieri spagnoli, tutti della stessa pasta: quando onore, patria, civiltà, famiglia chiamano tutto passa in secondo piano.

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