Che rapporto esiste fra la fantasia e il mondo esterno?
Le esperienze degli uomini, le loro vite, sono qualcosa di completamente separato dall’immaginazione, dalla fantasia? I sogni appartengono a un altro regno rispetto a quello della realtà?
Pagine di uno stesso libro
Viviamo in una società che predilige una visione del mondo che tiene radicalmente separati la realtà e i sogni, il mondo esterno e l’immaginazione. Ciò garantisce una conoscenza oggettiva delle cose che circondano l’uomo: facendo astrazione da elementi soggettivi, ecco che può entrare nelle dinamiche che costellano il mondo. Tuttavia, secondo filosofi come Platone, è difficile saper distinguere con certezza il regno della notte da quello del giorno, tanto che “la somiglianza delle sensazioni nel sogno e nella veglia è addirittura meravigliosa”. (Teeteto)
Ma Luciano Ligabue, cantautore italiano, decide di sbilanciarsi, tanto da affermare nella canzone che porta il seguente titolo che:
“Sono sempre i sogni a dare forma al mondo
Sono sempre i sogni a fare la realtà”.
É possibile che i sogni contribuiscano a formare il mondo come lo conosciamo? Per fare questo, ci dovrebbe essere una linea di continuità fra i due, non una netta frattura. Il filosofo Arthur Schopenhauer è convinto che i sogni siano frutto di una particolare attività del cervello non condizionata da impressioni esterne, tanto da permettere all’uomo di guardare con occhi nuovi alla realtà: essi sono espressione di un’unità, si potrebbe dire inconscia, che l’uomo ha con il mondo. I sogni, insomma, sarebbero capaci di entrare nel cuore delle cose, diversamente da come accade durante la veglia.
“La vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il tempo del riposo allora spesso seguitiamo ancora, fiaccamente senza ordine e connessione, a sfogliare qua e là qualche pagina: spesso è una pagina già letta, spesso un’altra ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro”.
Una capacità che Schopenhauer, in maniera diversa, darà anche a un’espressione cara a Ligabue: la musica stessa, dotata dell’incredibile fascino di andare oltre l’ordinarietà della realtà, un po’ come dice il cantautore emiliano, quando “certe notti la radio che passa Neil Young sembra avere capito chi sei”. (Certe notti). Ma quando Ligabue parla dei sogni che modellano la realtà, probabilmente non si riferisce solo a quelli del sonno, ma anche a quelli “a occhi aperti”, sogni come i pensieri o le speranze degli uomini, che la fantasia lascia per un attimo realizzare.
Le pietre di Berens
Qui, per un nuovo modo di guardare a queste due dimensioni apparentemente così distanti, si potrebbe citare l’antropologo Tim Ingold, che nella sua Antropologia racconta di Berens, capo villaggio degli Ojibway, il quale crede fermamente che alcune pietre siano in vita, mentre altre no. Ma come può qualcuno affermare una cosa del genere? Come si può realmente credere che un oggetto inerte come una pietra possa essere vivo? E perché solo alcune di esse? Forse, ipotizza Ingold, quello di Berens è un atteggiamento rituale, frutto della sua cultura, un’attitudine mentale che anche noi occidentali abbiamo rispetto ad alcuni oggetti, come, a esempio, i tavoli: questi li consideriamo abitualmente come elementi qualsiasi, ma all’interno di una cerimonia religiosa possono assumere le vesti di un altare, acquisendo una sorta di spiritualità. É questo che intendeva Berens con la sua affermazione? Tuttavia, è proprio quando qualcosa è molto estranea a noi che tendiamo a catalogarla come qualcosa di “rituale”, figlia di una tradizione lontana e bizzarra. Ma, dice Ingold:
“Aveva osservato che alcune pietre potevano muoversi di loro iniziativa, e persino produrre suoni simili a un linguaggio. Noi, naturalmente, che siamo convinti che le pietre non possano fare nulla di simile, potremmo supporre che lo abbia solo immaginato, o sognato. Ma se Berens fosse con noi ora, vorrebbe senza dubbio sapere come, nella nostra filosofia, esperienza e immaginazione possano essere così facilmente distinti. Non facciamo esperienza dei nostri sogni? Il nostro mondo onirico è davvero così diverso da quello della nostra vita da svegli? […] E se la verità trovasse dimora nell’unisono fra esperienza e immaginazione, in un mondo in cui siamo vivi ed è vivo per noi? ”.
Parte della vita
Se solo avessimo il coraggio di prendere sul serio le parole di Berens, capiremmo che la sfida non è quella di comprendere se oggettivamente le pietre siano in vita o meno, piuttosto, si tratta di cogliere come il mondo sia sempre qualcosa di più degli schemi in cui siamo soliti ingabbiarlo, con i quali abitualmente lo interpretiamo.
Ma qualcuno di noi ha mai pensato che:
“Dopo tutto, le pietre vagano, rotolando da pendii ricoperti di ghiaia, […] e producono dei suoni quando vengono colpite l’una contro l’altra o da altre cose. É come se ogni pietra avesse una voce distintiva, come accade per gli esseri umani”.
Ciò non significa comprendere che le pietre sono in vita, ma che sono parte della vita: una vita che lasciamo troppo spesso fissa, immobile, alla quale non lasciamo la possibilità di stupirci. Se ai sogni non fosse lasciata la possibilità di rompere i nostri stessi schemi, come potremmo cogliere il mondo nei suoi molteplici aspetti, anche in quelli più imprevedibili e impensabili? “E sogna chi ti dice che non è così” dice Ligabue: d’altronde, ora sembra un po’ meno assurdo che siano i sogni a dare forma al mondo, che l’immaginazione non sia un regno di astrusità, ma un modo per guardare con occhi diversi la nostra stessa realtà.