I Romani e la natura: un amore puro e profondo
Nella letteratura latina troviamo decine di componimenti di autori romani che celebrano la natura, ma qual è il loro rapporto con essa? In questo articolo cerchiamo di rispondere a questa domanda, attraverso le loro parole.
La felicità della vita rurale
Ma fortunato (è) anche colui che conosce gli dei agresti e Pan e Silvano il vecchio e le sorelle ninfe: lui, non i fasci del popolo, non lo piega la porpora dei re e ne la discordia che agita i fratelli reciprocamente infidi, o i popoli Daci che scendono dall’Istro legati da reciproco giuramento, non la potenza di Roma e i regni, tutti destinati a finire, lui ne mai si duole commiserando il povero o guarda di mal occhio chi possiede.
Così scriveva Virgilio (70-19 a.C.) nel secondo libro delle Georgiche, andando ad elogiare la felicità della vita rurale e l’indole di chi la vive quotidianamente, raccogliendo i frutti che crescono spontaneamente. L’autore confessa che un agricoltore, concentrato nel suo campo, non ha mai assistito e compreso “le leggi e la pazzia del foro” che porta gli uomini ad assediare nuove città per delle ricchezze che li trasformano in avari, ossessionati dai loro averi. L’agricola non comprende, continua a smuovere la terra ricurvo, non ha mai riposo e per tutto l’anno lavora. Virgilio ricorda, a chi l’ha dimenticato, che Roma nasce e si basa su questa vita e grazie a questa divenne la più forte e la “più bella del mondo”.
Prima di questo autore, M. Porcio Catone (234-149 a.C.) nella prefazione della sua De agri cultura, aveva trattato di come l’agricoltura fosse il mestiere economicamente e moralmente più sicuro, paragonandolo agli affari commerciali e all’usura. Questi due impieghi erano precari, il mercante infatti era soggetto alle avversità mentre l’usuraio era considerato socialmente peggio del ladro. Entrambi risultavano quindi pericolosi. I contadini invece erano gli uomini più energici e i soldati più valenti, il loro guadagno era il più rispettoso delle leggi umane e divine, il più onesto.
Espropriazione delle terre
In seguito alla battaglia di Filippi, nel 42 a.C. alcune terre vennero espropriate ai legittimi proprietari per distribuirle ai veterani di guerra, come promesso. Virgilio subì questo “furto” e nelle Bucoliche, chiamate anche Ecloghe, si tratta di questo tema. L’opera è composta da dieci carmi agricoli e pastorali, riprende infatti il genere della poesia bucolica inaugurata dal poeta greco Teocrito nel III secolo a.C..
M.: Titiro, tu, che stai sdraiato sotto il riparo / di un ampio faggio, componi una canzone silvestre / col modesto flauto; io lascio la patria e i suoi dolci / campi; ne fuggiamo via; tu, Titiro, sereno nell’ombra / fai risuonare i boschi del nome della bella Amarilli.
Il rifiuto della ricchezza
Io non ricerco le ricchezze dei padri e i frutti che portò all’antenato antico la raccolta nascosta: un piccolo raccolto è abbastanza per mettersi a riposare nel letto per ristorare le membra.