Nonostante l’italiano sia tra le lingue romanze quella più vicina al latino, enormi differenze sembrano distinguere i due idiomi.
Lo scopo di questo articolo è quello di elencare e comprendere i principali mutamenti linguistici che hanno segnato il passaggio da una lingua all’altra.
Premesse
Per farlo però è prima necessario specificare che l’italiano non deriva in via diretta tanto dal latino classico (se si fa eccezione dei latinismi), quanto piuttosto dal latino volgare, cioè quello parlato. Si tratta di mutamenti, quelli dal latino all’italiano, che hanno cominciato, per una serie di cause che qui risulterebbe difficile elencare, a compiersi in particolare a partire dall’età imperiale romana, ovvero dal I secolo d.C. Ma la vera e propria transizione linguistica è da ricondurre ai secoli VI-VIII, e indicativamente solo con il secolo IX possiamo affermare con alquanta certezza che vi fosse oramai una piena consapevolezza da parte dei parlanti del fatto che latino e volgare italiano fossero due distinte lingue.
1. La perdita della quantità vocalica
Il latino aveva un modo tutto diverso di pronunciare le parole, in particolare le vocali. Queste potevano infatti essere lunghe, o brevi, per cui, sulla base della pronuncia, venit poteva significare sia “venne” (con “i” lunga), sia “viene” (con i breve). Una distinzione del genere in italiano si è mantenuta solo per l’uso consonantico: “palla” ha un significato ben diverso da “pala”, ad esempio. Ma non vi sono parole le cui vocali, pronunciate lunghe o brevi, cambino il loro significato. Si tratta di un mutamento, questo, cominciato a partire dal II-III secolo d.C. per usura fonetica: i parlanti cominciavano a percepire sempre meno una distinzione quantitativa delle vocali, in favore di una distinzione basata sulla qualità delle vocali: aperte o chiuse.
2. La caduta dei casi
Fra le differenze più nette tra latino e italiano salta subito all’occhio l’utilizzo dei casi. Mentre il primo può spesso indicare le funzioni logiche delle parole tramite delle desinenze, il secondo deve talvolta servirsi di preposizioni, come nel caso del complemento di specificazione. Come è avvenuto questo passaggio? La risposta va ricercata in tempi piuttosto antichi, ma prima bisogna precisare che la maggior parte delle nostre parole deriva dall’accusativo delle forme latine. Un caso caratterizzato, come sappiamo, dalla nasale labiale finale (“-m”), la quale già in età classica (I secolo a.C.) tendeva a non essere pronunciata, o comunque molto debolmente. Nel momento in cui, poi, i parlanti latini cominciarono a non percepire più neanche la quantità vocalica, si andarono a creare enormi problemi di comprensione: si pensi ad esempio che familia poteva allo stesso tempo essere nominativo, vocativo, accusativo e ablativo, senza che ci fosse alcuna distinzione. Per far fronte a tutto questo, si andò a perdere l’uso dei casi, in favore di una lingua meno sintetica, ovvero che prevedesse l’uso di parole aggiuntive – come le preposizioni – che facessero da sostegno per il senso della frase.
3. La formazione degli articoli
Come conseguenza della caduta dei casi, accanto a un uso più largo delle preposizioni, sempre per motivi di comunicazione, vanno a formarsi anche nuove parti del discorso: gli articoli. Si tratta, questa, di un’altra evidente differenza tra le due lingue. Attraverso semplici passaggi, il numerale latino unum è passato a diventare in italiano anche articolo indeterminativo (“un/uno”), come nel caso femminile (UNAM > “una”). Più complessa invece la formazione degli articoli determinativi: la loro funzione cominciò ad essere svolta dai pronomi dimostrativi latini (illum, illam). In un’iscrizione risalente al IX secolo, troviamo infatti scritto: non dicere ille secrita a boce (“non dire ad alta voce le orazioni segrete della messa”), dove troviamo un uso di ille come articolo. I passaggi degli articoli alla forma che conosciamo noi oggi sono più complessi. Basti ricordare un caso più semplice, come ILLAM > “la”, in seguito ad aferesi (caduta della prima sillaba) e perdita della nasale -m (fenomeno che come abbiamo visto era piuttosto antico).
4. La perdita del neutro
Tutte le lingue si evolvono, chi più chi meno, e questo avviene per due fattori: per semplificare la lingua e per renderla più comprensibile. Sono i due opposti di una bilancia, perché una lingua troppo semplificata, poco articolata, rischia di non riuscire ad esprimere correttamente il messaggio di un parlante. Al contrario, una lingua troppo articolata, rischia di essere troppo complessa e poco efficiente. Nell’evolversi le lingue tengono conto inconsapevolmente di questi due fattori, facendo talvolta spostare la bilancia da una parte, e talvolta dall’altra. È questo il caso del neutro latino, che – come ci dimostrano alcune testimonianze plautine – tendeva a perdersi nel parlato, per puri motivi di semplificazione: Plauto (II sec. a.C.) in alcune sue commedie (che spesso rispecchiano il linguaggio parlato) all’accusativo usa ad esempio lactem (cioè la forma maschile) e non lac, così come invece dovrebbe essere nel latino classico.
5. La forma passiva
Chiudiamo infine con la forma passiva. Anche questa cambiò fondamentalmente per ragioni di semplificazione. Se infatti prima si diceva amor per dire “sono amato”, si passa ad amatus sum, o sum amatus. Apparentemente ci potrebbe sembrare un’espressione più complessa: in realtà risultò più naturale per i parlanti usare la seconda forma, perché usare una sola parola per esprimere un concetto relativamente complesso è più difficile. È lo stesso ragionamento per cui sarà meno naturale sentire un bambino – che tende a usare forme più semplici possibile – dire “ignoro” invece che “non so”.