Il Novecento, fecondo di tensioni laceranti e per questo segnato da una profonda necessità di esprimerle, ha lasciato in eredità al nostro tempo alcuni dei più grandi capolavori artistici del panorama occidentale, che hanno il merito di aver assorbito gli sconvolgimenti di un’età tormentata, liberandoli attraverso la poesia dalla gabbia della costrizione. Nel secolo in cui i poeti hanno definitivamente perduto il proprio ruolo di “guida sociale” e rinunciato per sempre alla funzione di “vate”, se da una parte echeggia il rassegnato invito di Montale a “non chiedergli la parola”, dall’altro c’è chi ha accolto l’appello dell’umanità nel suo intrinseco bisogno di avere qualcuno capace di esprimere i suoi sentimenti più intimi, le angosce di cui arrossisce, le gioie semplici di cui si nutre. Così Mogol (Giulio Rapetti), risvegliando il profondo nesso tra musica e parola con le sue numerose collaborazioni (celeberrima quella con il grande musicista Lucio Battisti), ha restituito la poesia perduta ai testi della canzone, scalzando il loro mero (e fin troppo frequente) statuto di “belle parole”. Mogol, creando fresche pennellate di verità, immagini cristalline di vita quotidiana dalla poeticità concisa ma intensa, si inserisce nel “tenue crepuscolo” (Antonio Borgese) della lirica italiana, restituendogli la luce.
La lirica Crepuscolare: la nostalgia dell’antico e la poesia della quotidianità
“…Oh! questa vita sterile, di sogno! Meglio la vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta meglio andare sferzati dal bisogno, ma vivere di vita! Io mi vergogno, sì, mi vergogno d’essere un poeta!…” Guido Gozzano, “La signorina Felicita, ovvero la Felicità”
Una malinconica nostalgia per un passato vicino, eppure lontano di una distanza incolmabile, vela la poesia di Gozzano, che rinuncia alla retorica dannunziana accogliendone i rottami. Nella sua opera vivono in doloroso contrasto il bisogno dell’antica grandezza e la consapevolezza della sua irrecuperabilità. È a questa tensione irriducibile che l’autore dà voce nei suoi capolavori, accettando l’insanabilità del conflitto e abdicando al ruolo di vate, in una società stanca di comprendere l’arte vana degli scrittori: una drammaticità esasperata, ma mai gridata, giace nella sua “vergogna di essere poeta”. Quella di Gozzano diventa la poesia del crepuscolo, cantata sottovoce nella penombra dei solai, inascoltata, dove giace dimenticato il “ciarpame reietto caro alla sua Musa”. La sua opera è l’arte del quotidiano, in cui prosaicità e retorica si fondono nei toni nostalgici dei suoi versi, in un costante gesto di riferimento e distruzione del modello. Versi capaci di trasformare in poesia il volto “quasi brutto” di una contadina colta nell’età ingrata che vede sfiorire la sua giovinezza, ma eternata in alcune delle rime più belle della nostra letteratura: “…E rivedo la tua bocca vermiglia,/ così larga nel ridere e nel bere,/ e il volto quadro, senza sopracciglia,/ tutto sparso d’efelidi leggiere/ e gli occhi fermi, l’iridi sincere/ azzurre d’un azzurro di stoviglia…”
Mogol: una nuova alba per la lirica italiana
“…Le mie mani come vedi non tremano più e ho nell’anima in fondo all’anima cieli immensi e immenso amore e poi ancora, ancora amore, amor per te, fiumi azzurri e colline e praterie dove corrono dolcissime le mie malinconie, l’universo trova spazio dentro me ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è…” Mogol (Battisti), “I giardini di Marzo”
Accantonata la nostalgia verso la grandiosità della poesia precedente, ormai niente più che un ricordo, Mogol irrompe nel crepuscolo della lirica italiana portando con sé una nuova luce e l’innovazione che porrà fine, superandola, alla stasi della poesia di inizio Novecento. L’ambiguità del Crepuscolarismo, caratteristica di un’era di mezzo e fase di passaggio, trova la sua risoluzione nella poesia di Mogol: mai magniloquente, sempre limpida anche nella drammaticità, trova le sue manifestazioni più felici in espressioni di intensità epigrammatica. È il caso del celebre verso “È troppo grande la città per due che come noi non sperano però si stan cercando” che condensa nella sua brevità le angosce e i tormenti degli amori clandestini di ogni tempo e terra. Oppure, sempre nella stessa canzone, il verso “Le sorrido, abbasso gli occhi e penso a te” che nella contrapposizione chiastica di due diversi pronomi sintetizza il senso del tradimento, rendendo con efficacia la chiave di lettura dell’intero componimento. La ripetizione anaforica dell’espressione “E penso a te” dà rilievo melodico alle parole, come la retorica nascosta e discreta, ricca di figure di ripetizione e di suono, di cui pure è ricca la composizione “I giardini di Marzo”. La musicalità dei testi si sposa perfettamente con le melodie che li accompagnano, composte da Lucio Battisti, uno tra i più importanti compositori italiani. La profonda compenetrazione tra musica e parole è possibile solo grazie al sodalizio artistico tra l’arte del musicista e quella del poeta, intimamente connesse al punto da creare un’unica anima (di cui sono esempi altrettanto validi le coppie Elthon John e Bernie Taupin o Burt Bacharach e Hal David fino a Vinicius De moraes e Toquinho). La loro felice complementarietà ha reso possibile la nascita di creazioni musicali e poetiche considerate capolavori internazionali. Identità separate che si raccolgono inscindibilmente nella loro intrinseca diversità.
Maria Chiara Litterio