“La passione di Cristo”: quando la violenza nel cinema fa i conti con la sensibilità religiosa

“La passione di Cristo” non è solo un film violento e crudo nel suo realismo. L’aurea spirituale che investì il cast e la ricerca della mera sofferenza di Cristo rendono questa pellicola un superamento dei limiti posti al cinema.

 

homme en veste et pantalon blanc et noir assis sur une surface noire

Il film di Mel Gibson “La passione di Cristo” esce nelle sale nel 2004 e subito scatena un furibondo dibattito. Se l’intento di Gibson era quello di cogliere l’atto supremo del sacrificio di Cristo, ovvero la crocifissione, in tutta la sua violenza e brutalità, per risvegliare le anime ‘sonnolente’ dei cristiani, il film venne pesantemente criticato per un eccessivo ricorso al sangue e un forte antigiudaismo.

LE INTENZIONI DI MEL GIBSON

Mel Gibson, regista de “La passione di Cristo”, nasce in un contesto familiare permeato da un marcato conservatorismo cristiano. Il padre, infatti, è membro di una setta denominata ‘Alleanza per la tradizione cattolica’, che non accetta il Concilio Vaticano II, reo di essersi pronunciato a favore del ripudio dell’antisemitismo teologico riguardo la morte di Cristo, e si configura come una congregazione spiccatamente antisemita. Circondato da questa alone fortemente negativo, le premesse per la realizzazione del film non sembrano essere a suo favore e le critiche cominciano a prendere forma. Il film viene girato nella città lucana di Matera ( mentre gli interni a Cinecittà) e nel cast vi sono nomi roboanti: Gesù lo interpreta James Caviezel, salito alla ribalta con il film del 1998  ‘La sottile linea rossa’, Maria Maddalena è invece Monica Bellucci, che dà al suo personaggio un tocco di sensualità del tutto evitabile.

La grandezza del film non sta però nella resa degli attori, per quanto encomiabile essa sia, ma nell’intento del regista. Gibson ha l’obiettivo di rappresentare la passione di Cristo in tutta la sua sofferenza. Se il figlio di Dio ha realmente patito le pene dell’inferno, è giusto che lo si racconti senza veli. Chi non ha lo stomaco per addentrarsi nell’opera gibsoniana non faccia il biglietto. Ma non è tutto qua. Gibson vuole permettere allo spettatore di calarsi in tutto e per tutto nel mondo del Nazareno, e per questo evita barriere linguistiche optando per una sceneggiatura in aramaico, ebraico e latino, avvalendosi di insigni linguisti e filologi. Certamente in alcuni punti la recitazione appare ai limiti dell’accettazione: Claudia Gerini, alias Claudia Procula, moglie di Ponzio Pilato, stenta in un latino ‘formato IV Ginnasio’, mentre il massimo dell’insulto proferito dai legionari-torturatori è ‘stultus’, rendendo così i brutali e sanguinari romani simpaticamente poco volgari. Utilizzare le lingue antiche, però, permette di liberare Gesù dal bagaglio di una cultura particolare; adoperando le lingue moderne si sarebbero collegati i personaggi con la cultura associata alla lingua.

Le fonti a cui Gibson fa ricorso sono i Vangeli ( Gibson compie però degli errori: la seconda flagellazione che si vede nel film non viene accennata nei Vangeli, e la via Crucis viene ridotta lapidariamente da Giovanni a ‘prese la croce e si diresse sul Golgota’) di cui cerca di fare un compendio sinottico, e lo scritto ‘La dolorosa Passione del Nostro Signore Gesù’ della mistica tedesca Anna Katherina Emmerick, che con le sue visioni accentuò la portata cruenta del supplizio. Agli occhi dei più l’opera cinematografica potrà sembrare uno slash movie pieno di tortura, sangue, tagli, sofferenza gratuita inflitta, sadomasochismo sul grande schermo, ma la grandezza di Gibson sta proprio lì. Non solo ha colto il reale patimento di Gesù in tutto il suo orrore, supplizio che forse fu addirittura più violento, ma si è fatto anche  portatore di un messaggio volto al risveglio delle coscienze cristiane. Fino ad allora il cristiano medio era cresciuto con una certa  pigrezza religiosa, che gli aveva fatto dimenticare la realtà storica di Gesù, non aiutato da un  catechismo superficiale di circostanza  che ai nostri giorni plasma  più atei di quanti ne avvicini alla Chiesa; ora gli veniva presentato il terrificante trapasso di colui che per noi si è sacrificato.

 

 

James Caviezel in “La passione di Cristo”

UN FILM CHE HA GENERATO REPULSIONE

Per chi crede che l’estetica sia inseparabile dall’etica , è un film esteticamente ignobile e non religioso nel suo efferato dolorismo, […]. Gli attuali cattolici da Controriforma, i nemici (vescovi compresi) del Concilio Vaticano II e i seguaci di  monsignor Lefebre esaltano, si commuovono, raccomandano un film splatter sulla passione del Nazareno in cui Gibson, non nuovo a imprese filmiche sotto il segno del sadomasochismo, lo passa la tritacarne per la maggior parte delle 2 h di spettacolo con compiacimento maniacale, […] . Più che antisemita è un film antigiudaico, ma la questione è opinabile.

Nonostante le tre nomination agli Oscar per la miglior fotografia, trucco e colonna sonora, l’illustre Enciclopedia Morandini così si esprime nel giudicare questo film, a cui viene assegnato una sola misera stelletta, il minimo; ma che ai Morandini Mel Gibson non vada giù non è una scoperta: il film Braveheart venne accusato di omofobia, mentre il posteriore Apocalypto sarà ritenuto un film d’azione troppo violento. Nel film le autorità ebraiche, più che colpevolizzate, si palesano come coloro che hanno voluto la morte di Gesù: non è infatti Ponzio Pilato, la massima autorità romana in loco, a volerne l’uccisione, ma sono i Rabbi del tempio che sollevano la folla contro Gesù affinché Pilato se ne lavi le mani e lo lasci a loro.

I detrattori di Gibson ritengono che il film dipinga il popolo ebraico con pennellate cupe e medievali, caratterizzandolo come violento, assetato di denaro, misero di pietà e commiserazione; antigiudaico perché risveglierebbe un odio antisemitico latente che imputa la morte di Gesù agli ebrei. C’è poi chi parla di Gibson come di un Carlo Martello 2.0 che fa del film una Poitiers attraverso cui salvare il mondo o chi inserisce il film nel solco tracciato dal post 11 settembre, che vedrebbe Gibson propugnatore di conquiste di salvezza e di civiltà. Gibson sarebbe quindi un novello Bush. Solo  che uno colpisce con i film , l’altro con le bombe. Non scevre da accuse di invenzione per facilitare propaganda mediatica, le parole di Papa Giovanni Paolo II dopo la visione del film sarebbero state :”It is as it was”. Apocrifa, falsa o non, questa frase ben sintetizza lo spirito dell’opera gibsoniana: se la storia racconta la violenza allora noi la rappresentiamo. Questo è il realismo. ­

HOMO PATIBILIS

Senza dubbio un errore in cui è caduto Gibson è aver trattato Gesù come se tutta la sua vita anteriore alla crocifissione non avesse contato nulla, o meglio, che solo il suo ultimo e supremo atto di sacrificio avesse voluto significare qualcosa. Ma il tema sta proprio qui. Perché Gibson si sofferma così tanto sul patimento sofferto in croce dal Nazareno? Perché con Gesù la croce non è solo più simbolo di tortura e supplizio, ma diventa il culmine della sua vita, il riassunto del messaggio di Dio. La vita di Gesù viene trasformata nella morte: l’ homo patibilis, che soffre, viene colto nel cuore stesso del divino; egli non muore per sacrificarsi, ma perché ha obbedito alla volontà di Dio. Il supplizio sulla croce ci permette di vedere Gesù-Dio. L’estremo umano e il divino si compenetrano in quell’ultimo violento atto e la croce ci racconta che amare il nostro nemico, la bontà gratuita, è possibile. Ma anche se lo spettatore cristiano dovesse aver compreso il Gesù gibsoniano, probabilmente avrebbe fatto a meno di tutto quel sangue.

 

 

 

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