Nella frenesia della vita che non permette debolezze, nella crudeltà dell’esistenza che segna irreparabilmente l’uomo non consentendogli di trovare pace, è forse possibile uno spiraglio di salvezza?

Nella miseria della condizione umana, mortale, sembra che l’unica possibilità di riscatto sia nascosta in determinati oggetti, che assumono un significato assoluto e diverso da persona a persona. Così avviene nel romanzo di Donna Tartt, vincitore del premio Pulitzer nel 2014, “Il cardellino” e in alcuni componimenti del poeta novecentesco del “male di vivere” Eugenio Montale.
“Il cardellino”, un quadro che segna il destino
Il libro della scrittrice statunitense ha come punto fisso il capolavoro di Carel Fabritius, pittore del XVII secolo, “Il cardellino”. Intorno a questo ruotano vorticosamente le molteplici vicende dei personaggi, a partire dal giorno in cui Theo Decker, tredicenne, lo vede per la prima volta al Met. È sua madre che entusiasta glielo mostra e descrive appassionatamente, pochi minuti prima della terribile esplosione che sconvolgerà per sempre la vita del ragazzo. Nel disorientamento angosciante seguente, il protagonista Theo obbedisce all’ultima volontà delirante di un vecchio morente fra le macerie, e recupera la tavola amata da sua madre per condurla in salvo. La terrà nascosta per anni, portandola con sé in ogni spostamento per trovare una sistemazione, anche affettiva, stabile. Dalla casa di un amico di infanzia, al ritorno di un padre giocatore d’azzardo che lo catapulterà a Las Vegas con le giornate all’insegna degli eccessi, con l’amico Boris, dal ritorno a New York, di nuovo orfano, alla nuova vita a casa di un mercante d’antiquariato benevolo. Il dipinto rimane l’unico punto di riferimento a cui può sempre tornare, l’unico posto sicuro, l’unico custode del ricordo dell’adorata madre. Sarà questa stessa opera a procurargli anche alcuni guai, a trascinarlo ad Amsterdam, in vicende turbolente e pericolose che lasciano il lettore col fiato sospeso fino all’ultima pagina di questo avvincente e struggente romanzo. “Vanitas, Natura morta con libri e manoscritti e un teschio” di Edwaert Collier
Il valore metafisico degli oggetti nella poesia di Montale
Perché, se sono i nostri segreti a definirci, e non il volto che mostriamo al mondo, allora il quadro era il segreto che mi elevava al di sopra della superficie dell’esistenza e mi permetteva di conoscermi per quello che sono. Ed è là: nei miei quaderni, in ogni pagina, anche se non c’è. (da “Il cardellino”, Donna Tartt, traduzione di it. di Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai, Rizzoli, 2013, pagina 884)
Per Theo il quadro è qualcosa di estremamente importante, al di là della qualità artistica e della valenza storica. Custodire quell’insieme di pennellate luminose lo fa sentire speciale in un mondo che non si cura di lui, protetto nel mare di sofferenze in cui sta annaspando. Sono molti i momenti in cui sente l’istintivo e inteso desiderio di guardarlo, contemplarlo fino ad essere un tutt’uno con quel frammento bellissimo di passato. Quell’opera dunque assorbe un significato profondo e personale, che trascende l’impatto visivo superficiale. Assume un valore esistenziale come tutti gli oggetti che si annidano fra i versi poetici di Eugenio Montale. Il poeta proprio usando la tecnica del correlativo oggettivo, non ci spiega le sue sensazioni, emozioni, o la sua concezione del destino umano, ma ci presenta principalmente degli oggetti. Questi sono immagini concrete e tangibili della condizione di precarietà interiore del soggetto.
Dora Markus, Theo e l’amuleto contro l’annullamento individuale
In alcuni particolari oggetti, della raccolta “Le occasioni”, si catalizza un potere salvifico. Diventano depositari di un qualcosa di magico, di una funzione liberatoria, di un istante del passato che era riuscito a scardinare, solo per un attimo, la prigione dell’esistenza. Così nella poesia “Dora Markus” è un piccolo talismano in avorio, a forma di topolino bianco, la cosa materiale a cui si affida l’unica possibilità di salvezza.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!
La donna qui descritta avverte con inquietudine e turbamento la sua fragilità, quasi presagisse il destino cupo a cui sarebbe andata incontro, in quanto ebrea, negli anni della persecuzione nazista. Il suo cuore è colmo ormai di indifferenza, di una stanchezza esistenziale che la corrode e l’unica cosa che sembra mantenerla in equilibrio, sul filo sottile sopra il baratro della morte e della vacuità, è quell’amuleto. Come se quel dettaglio quotidiano, fra gli altri citati strumenti per il trucco, avesse il potere superstizioso di scacciare la cattiva sorte. Allo stesso modo il quadro permette a Theo di andare avanti, di sopportare, in esso si sono condensati tutti i momenti rilevanti della vita precedente all’esplosione. È come se fosse il suo portafortuna, che gli permette di esistere e resistere nel suo animo disgregato, ancora colmo di macerie e polvere, frammentato a causa del trauma vissuto.