La nascita del ministro della solitudine può essere spiegata sulla base della ricerca empirica di Durkheim sul suicidio. Capiamo perché.
Erano undici anni che in Giappone non si registrava una tale impennata del tasso dei suicidi: ad ottobre 2020 le autorità locali osservavano un aumento del 70% rispetto all’ottobre dell’anno precedente. E se l’incremento è da imputare senza ombra di dubbio a quel senso di isolamento, lascito del Covid-19, la soluzione per il primo ministro giapponese Yoshihide Suga è la creazione di un apposito ministero per contrastare gli effetti alienanti delle restrizioni messe in atto per fronteggiare la pandemia. E così il 19 febbraio 2021 Tetsushi Sakamoto diviene il primo ministro giapponese della solitudine.
Un ministro per la solitudine
Tetsushi Sakamoto verrà ricordato come il primo esponente del governo giapponese a ricevere l’incarico di dare vita ad un ministero della solitudine. Si tratta di un ruolo visceralmente nuovo che nasce da una serie di sfide inedite inimmaginabili prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria: la privazione di contatti con il mondo esterno, il cambio repentino di abitudini, spesso la perdita di un lavoro sono tutte prove che il Covid-19 ha consegnato all’individuo, aggravando o generando solitudine ed alienazione sociale. Di qui la nomina, sulla base del modello inglese, di un ministro della solitudine incaricato principalmente di combattere l’aumento del tasso dei suicidi e tra le altre prerogative di affrontare il problema del declino delle nascite, la questione della povertà infantile e il potenziamento delle economie regionali
Scendendo nei dettagli della situazione giapponese uno dei dati da evidenziare tempestivamente è l’aumento dei suicidi nella popolazione femminile: soltanto ad ottobre 2020 880 donne si sono tolte la vita. Secondo l’esperto di suicidi Michiko Ueda la maggior parte di queste possiede delle caratteristiche comuni: non è sposata, non ha un impiego fisso e deve sostenersi economicamente, e non, individualmente. Si tratta di variabili che già prese singolarmente fanno leva su un terreno collettivo che vede la solitudine e l’alienazione sociale a fare da protagoniste ma che se combinate con le restrizioni da Covid-19 danno luogo a disturbi di stress post traumatico e patologie depressive. La variabile che qui voglio mettere in evidenza rimane la solitudine: il suicidio coinvolge individui soli, distanti dallo spazio sociale. Ecco, quindi, che il nuovo ministro ha il compito di individuare strategie atte a prevenire la disintegrazione sociale e a rafforzare i legami tra cittadini. Il discorso non è poi estraneo alla ricerca sociologica e di fatti compare in Durkheim e nel suo saggio di punta “Il suicidio. Studio di sociologia”.
Durkheim e la scienza sociologica
Prima ancora di analizzare le variabili individuate da Durkheim nella ricerca sul suicidio, analizziamo il profilo del sociologo ottocentesco. Emile Durkheim si inserisce nella tradizione francese del positivismo sociologico: sulla scia di Comte è tra gli esponenti che hanno contribuito alla elevazione della sociologia a scienza sociale. A Dukheim si deve l’elaborazione delle Regole del metodo sociologico (1895), che lui stesso due anni dopo si propone di applicare nella ricerca sul Suicidio; quest’ultimo a tutti effetti il primo esempio di ricerca empirica nella storia della sociologia. In entrambe le opere la prospettiva da cui parte è “oggettivistica”, vale a dire che Durkheim considera i fatti sociali alla stregua di oggetti, cose o elementi. Di qui si evince il tentativo del sociologo di voler prendere le distanze dalla filosofia, edulcorata da artefici mentali e variabili metafisiche, e la rivendicazione della sociologia come scienza sociale autonoma, che ricerca empiricamente la realtà dei fatti sociali, determinati e influenzati da leggi proprie. Ecco, quindi, che nelle Regole afferma che “la causa determinante di un fatto sociale va cercata tra i fatti sociali antecedenti e non già negli stati della coscienza individuale”.
Ora, per Durkheim due sono le ragioni che permettono di parlare della sociologia come scienza sociale: da un lato l’oggetto di ricerca, ossia l’azione sociale intesa come insieme di fenomeni esterni e non già come specchio di comportamenti soggettivi alla maniera della psicologia; dall’altro il metodo di ricerca, cioè l’analisi causale, vale a dire la ricerca dei nessi causa-conseguenza tra fatti oggettivi e propri del reame sociale.
Il Suicidio: fattori in comune
Abbiamo detto che la sociologia è a tutti gli effetti una scienza sociale tra le altre ragioni per il metodo di indagine. L’analisi causale di cui parla Durkheim è assai evidente nel suo lavoro sul Suicidio: nell’opera ciò che il sociologo prende in considerazione sono unicamente le cause sociali e non già le ragioni extra-sociali o quelle che lui stesso definisce i “fattori cosmici” del fenomeno, laddove per cosmici sono da intendersi quelle variabili che risentono delle influenze caratteriali o psicologiche.
Analizzando unicamente le cause sociali Durkheim scopre che la tendenza al suicidio è più frequente tra gli uomini, gli anziani, gli individui non sposati, le persone che risiedono in zone urbane piuttosto che nelle aree rurali, e, per la variabile religiosa, tra i protestanti piuttosto che tra le persone di fede cattolica. Da quest’ultimo dato il sociologo francese ricava la teoria dell’anomia, laddove per anomia si intende letteralmente la “mancanza di norme” e, dunque, in senso lato la “perdita del controllo normativo”, che altro non è che un sinonimo dell’alienazione sociale. Ecco, quindi, che a fare da protagonista è ancora la tematica della solitudine come nel caso giapponese: al di là delle diversità imputabili al cambio di secolo e alle innovazioni che quest’ultimo porta con sé la principale ragione dell’aumento del tasso dei suicidi rimane la “disintegrazione sociale”, cioè la perdita dei legami con il mondo esterno, responsabile della generazione di sensazioni di solitudine e di alienazione sociale. Di qui Durkheim individua nell’integrazione sociale una funzione necessaria all’equilibrio della società e, per dirla in termini moderni, al welfare dello stato.