La malattia mortale

Soren Kierkegaard, famosissimo filosofo danese, è stato tra i primi precursori dell’esistenzialismo a trattate il tema del singolo e sopratutto della sua esistenza. Kierkegaard, infatti, era solito sostenere che “la mia idea è quella che ho espresso vivendo” motivo per il quale uno dei suoi punti di riferimeto era proprio se stesso e la sua quotidianità. Come ogni buon studente di filosofia saprà, Kierkegaard sarà uno tra i primi a criticare Hegel etichettando la sua filosofia come “astratta” in quanto Hegel cerca di comprendere l’esistenza attraverso un concetto che non gli appartiene, l’Assoluto, mentre Kierkegaard sostiene che l’unico modo per comprenderla è trattare dell’ individuo. L’eredità filosofica di Kierkegaard in questo ambito è una sola: il concetto dell’angoscia e della disperazioe con il proprio io. Kierkegaard, infatti, sostiene che l’angoscia è tutto ciò da cui l’uomo non potrà mai liberarsi definitivamente, in quanto essa farà perennemente parte della sua vita. Ma cos’è esattamente l’angoscia? Molti potrebbero rispondere affermando che quest’ultima, altro non sia che un sentimento di paura, terrore, quasi frustrazione di fronte ad un pericolo insormontabile, ad un ostacolo percepito dall’essere o ad una situazione dalla quale non si riesce ad allontanrsi. Bene, per Kierkegaard l’angoscia è legata alla scelta. Ogni mattino, ogni secondo della nostra vita siamo costretti a compiere una scelta, dalle decisioni più banali a quelle più importati. La capacità e la necessità di scegliere sono ciò che distingue l’uomo dalle altre speci, come ad esempio gli animali. Quando un leone è affamato, sappiamo tutti che si ciberà della prima preda nel raggio di 5 miglia, senza fare distinzioni o paragoni, si ciberà di essa, qualsiasi cosa essa sia, pur di sfamare se stesso. Gli animali, infatti, rispondo agli stimoli della propria specie, non conoscono l’indecisione, non sono dotati di razionalità, non si fermano a riflettere quale sia la preda migliore o quella di cui hanno più voglia, semplicemente si accontentano di ciò che incrocia il loro cammino. L’individuo, invece, si trova di fronte all’ardua scelta e alla consapevolezza di dore scegliere obbligatoriamente, in quanto nessun altro potrà farlo per lui, da ciò nasce l’agoscia, ossia il desiderio che qualcun’altro prenda il nostra posto, che decida per noi sollevandoci da ogni responsabilità o facilitandoci l’impresa e la consapevolezza che ciò no può accadere. L’individuo deve scegliere necessariamente perchè da ciò dipende la propria esisteza, se non sceglie non andrà avanti, on costruirà il suo cammino e non raggiungerà alcuna meta. L’angoscia è la malattia mortale poichè l’uomo non può scappare dalla suo obbligo di scelta. C’è una soluzione? Ovviamente Kierkegaard, da brvao cristiano, individua un ipotetica soluzione della religione, ossia nel “salto”, secondo il filosofo riporre la propria vita nella mani di Dio è l’unico modo per liberarsi da quest’ultima. Le ragioni possono essere ovvie, prima di tutto Dio sceglierebbe per noi sollevandoci, quindi, dal peso del prendere decisioni inoltre Dio, essendo buono e misericordioso, prenderebbe sempre la decisione più adeguata. Possiamo concludere dicendo che l’angoscia descrive il rapporto dell’uomo, non propriamente con se stesso, ma con il mondo e la sua esistenza
La disperazione

Kierkegaard crede fermamente che il rapporto tra il singolo e se stesso sia dominato dal sentimento della “disperazione” legata al sesnso della propria finitudine. Poichè l’uomo ha coscieza di essere finito ed imperfetto, quest’ultimo soffre in quanto non riesce a soddisfare il desiderio di essere “unico, immortale, infinito e pefetto”. Per Kierkegaard questi obbiettivi sono semplicemente impossibili da raggiungere poichè l’uomo è destinato ad essere sempre un essere “minore”. La sua disperazione deriva dal suo deisderio di distaccarsi da se stesso per essere altro e dalla consapevolezza di non poterlo fare in quanto è desitnato a scontrarsi perennemente con i propri limiti. La disperazione è, di fatti, simbolo de rapporto tra l’essere e se stesso diventando, insieme all’angoscia, ” la malattia mortale”.
L’essere-per-la-morte

Martin Heiddeger, filosofo tedesco, è uno dei pensatori più contemporanei del secolo scorso, nonostante la sua opera “Essere e Tempo” sia rimasta incompleta e sia, ancora oggi, oggetto di dibattito ed interpretazioni, rimane una delle più vicine alla compresione del singolo e della sua esistenza. Heiddeger cerca, infatti, di rispondere all’originale domanda ontologica “cos’è l’essere” in relazione al singolo e al tempo. Ovviamente, come Kierkegaard, per comprendere l’essere bisogna comprendere l’esistenza, ossia il suo “senso dell’essere” e viceversa. Heiddeger esplora due termini fondamentali “sein” e “dasein“, il primo sinonimo di “essere” ed il secondo di “esistenza” non da confondere co il soggetto. Heiddeger, infatti, sosteneva che il dasein dovesse aiutare l’uomo a comprendere la sua natura primaria, ossia quella di singolo, essendo un termine molto ambiguo e complesso traducibile come “esserci” nel senso di “essere nel mondo”. Heiddeger sostiene che l’individuo sia un “essere nel mondo” ossi nato per “essere” lì, in quel determinato momento, in quell determinata società. Tra molte altre riflessioni in questo ambito, Heidegger individua il concetto di essere-per-la-morte in quanto la morte è l’unica possibilità autentica che rende tale la nostra esistenza. Il filosofo sostiene quanto l’individuo non possa non scegliere di non morire e non possa evitarne la realtà, la morte è l’unica vera realtà, poichè non esiste come possibilità ma come certezza essendo questa l’unica cosa sulla quale non possiamo dubitare. La morte scatena il sentimento dell’angoscia, in questo caso positivo, che ricorda al singolo dell propria finitudine incoraggiandolo a vivere un esistenza autentica. Per Heiddeger, l’angoscia diventa una sorta di “carpe diem” per la quale non può perdere tempo incappando in scelte sbagliate o influenzate da fattori esterni, la morte ed il sentimento dell’angoscia che la precede incita l’umanità a vivere secondo la propria volontà, prendendo scelte consapevoli, relizzando il proprio percorso, poichè essendo il su tempo limitando, non occorre perderlo vivendo un esistenza che non ci appartiene.
Come Edvard Munich dipinse l’angoscia

Il termine angoscia descrive uno stato di crisi emotiva di frustrazione, frutto di pensieri, tormenti e paure legate ad una ragione specifica;c’è chi dice che l’angoscia nasca dalla storia, dal contesto sociale, dall’Io che avverte ansie ed apprensioni alle quali, però, non sa dar nome. Eppure, un
nome a questo spleen s’è cercato di darlo soprattutto nelle letterature, filosofie ed arti che tra Ottocento e Novecento hanno preso l’individuo ed il suo essere come oggetto di studio . Ma qual è precisamente l’origine di questo male? “Sentii un urlo attraversare la natura” dichiarò Edvard Munch quando fu tempo di spiegare il suo più celebre dipinto “ L’urlo” : il quadro è l’espressione perfetto di quel fatidico senso di disorientamento che divampa a fine secolo che ricopre la visione del mondo. L’uomo rappresentato è proprio l’artista sotto forma di un fantasma sgomento e
deforme il cui corpo, privo di materialità e fisicità, è formato da linee ricurve, instabili e fluttuanti come l’anima di chi è attanagliato dall’angoscia di vivere. Il paesaggio, irreale e sovraumano, è caratterizzato da colori forti, in particolare da rosso sanguigno di una tonalità così accesa da sembrare una protesta contro il freddo della vita, statica ed opprimente, che schiaccia chi non riesce a trovarvi scampo. Ansia, angoscia, paura:sono questi i sentimenti che ispirano Munch a realizzare il quadro, sentimenti incombenti che portano il protagonista ad urlare in maniera tanto
disperata quanto liberatoria, le onde sonore che succedono l’urlo scuotono ed agitano la natura circostante mettendo in bilico, ma allo stesso tempo rispecchiando, la psiche frustrata dell’artista.
Il bisogno di urlare è il risultato del baratro umano, del culmine che gli uomini di questo secolo avvertono e toccano e che non lascia loro nient’altro se non la voglia di esternare i violenti pensieri che li uccidono attraverso un grido d’aiuto . Purtroppo però, questo non sortisce l’effetto
desiderato, i due uomini che precedono il personaggio principale sono ritratti mentre camminano tranquillamente, incuranti, di ciò che succede alle loro spalle, questo ci lascia pensare che l’urlo ci sia, ma sia interiore, un urlo che solo chi emette può avvertire così come i brucianti sentimenti
che lo generano, inascoltati e negletti da chiunque li circondi . “nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori.” scriverà Munch nel suo taccuino quando s’accorge di non riuscire neppure ad attirare l’attenzione dei propri amici (simbolo della falsità dei rapporti umani) poiché questi non comprendono il suo stato d’animo. Il mondo continua a ruotare, la vita continua a scorrere in un movimento fluido e continuo che non dà spazio, però, a chi sulla sua giostra non riesce a starvi: non rimane altra soluzione per l’artista se non manifestare la propria angoscia attraverso l’arte, il grido d’aiuto c’è , c’è eccome ed è tutto contenuto nella profondità della sua anima.