Il caso Schumacher ci ricorda qual è il valore della vita?

Era il 29 dicembre del 2013 quando tutto il mondo ha appreso del tragico incidente di Michael Schumacher, indubbiamente uno dei più grandi piloti della storia della Formula 1. L’incidente, avvenuto durante un fuori pista con gli sci sulle nevi di Méribel, in Francia, lo costrinse inizialmente in uno stato di coma farmacologico. Sei mesi dopo, uscito dal coma e dall’ospedale, trasferito prima in una clinica privata ed in seguito in una struttura di sua proprietà, ha iniziato la sua personale e silenziosa battaglia lontano dalla stampa. Da quel giorno viene quotidianamente alzato dal letto e i suoi familiari possono essere testimoni della sua muta presenza. Nonostante ciò, la sua sopravvivenza è sempre restata appesa all’utilizzo di macchine vitali. Le ultime indiscrezioni però parlano addirittura di un risveglio di Micheal. In assenza di fonti certe, una presa di posizione sulla questione sarebbe molto ingenua. Quel che è certo è che il circolo mediatico intorno alle sue condizioni ha riportato al centro del dibattito questioni cruciali in bioetica, quale la liceità o meno di sospendere le cure a soggetti la cui sopravvivenza è necessariamente vincolata all’utilizzo di determinati macchinari.

Vita biologica o vita biografica?

Il presentarsi di questa nuova problematica ha indotto la filosofia a ripensare il concetto stesso di vita, proponendo una scissione fra vita biologica e vita biografica. La prima riguarda quell’elemento di comunanza con ogni essere vivente. La seconda invece riguarda quel complesso di relazioni, sensazioni, emozioni, progettualità ecc. che è prerogativa del modo di esistere dell’uomo. Inaugurata questa divisione, l’attenzione si sposta su due domande cruciali. In quale senso di vita, biografica o biologica, dobbiamo intendere il diritto alla vita? Quale gerarchia di valore sussiste fra queste due tipologie di esistenza? La modalità di risposta a questi quesiti offre una biforcazione sulla veduta etica del problema.

Peter Singer.

Etica della disponibilità alla vita

L’etica della disponibilità, o qualità, della vita ha indubbiamente molte sfumature di contenuto dettate dalle diverse declinazioni di essa, riassumibili però sotto una concezione comune. Essa sostiene che la vita biologica è totalmente disponibile all’uomo. Egli infatti ha diritto a disporre e a decidere su di essa a seconda della sua volontà. Il tutto per il fine di avere una miglior qualità della vita stessa. Come sostiene Peter Singer “Se un essere soffre non esiste alcuna giustificazione morale per rifiutare di prendere in considerazione tale sofferenza”. La vita biologica dunque non ha in sé un valore assoluto, ma deve essere rapportata, relativamente al desiderio o volontà del soggetto che deve decidere, alla vita biografica. Al presentarsi di un conflitto fra queste due forme di vita il primato spetta alla vita biografica. Per un’etica di questo tipo dunque ogni scelta sulla propria vita, al presentarsi di situazioni che la rendono poco tollerabile, è una pratica moralmente legittima.

Etica della indisponibilità della vita

L’etica della indisponibilità, o sacralità, della vita sostiene invece l’esatto opposto ed ha spesso a proprio fondamento considerazioni religiose. Essa argomenta che non si possono scindere completamente queste due dimensioni della vita, ma vi è un’unità fondamentale. La vita biologica ha un valore in sé indipendentemente da quel che può offrire la vita biografica. Se per l’etica della qualità non c’è alcun obbligo morale di conservare la vita in ogni situazione e condizione, per l’etica della sacralità invece tale obbligo esiste e deve essere rispettato.

Figura dell’autocoscienza.

Un nuovo concetto di persona?

Entrambe queste dimensioni etiche traggono una propria legittimità dal concetto di persona che propongono. Per un sostenitore dell’etica della sacralità infatti ogni essere umano è da considerarsi una persona, ovvero un individuo dotato di caratteristiche tali che lo rendono titolare di una protezione assoluta, sia sul piano giuridico che su quello morale. Per un fautore dell’etica della qualità invece il concetto di persona non è sovrapponibile a quello di essere umano. Lo stesso Singer, riprendendo la definizione di Locke di persona quale “un essere intelligente e pensante, che possiede ragione e riflessione e può considerare se stesso, cioè la stessa cosa pensante che egli è, in diversi tempi e luoghi; il che fa soltanto mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensiero ed essenziale a esso”, considera persona unicamente una “sostanza in grado di rappresentare se stessa esistente nel tempo”.

Hans Jonas.

Quando possiamo definirci morti?

Un ultimo concetto chiave da analizzare è quello della morte. Il 5 agosto 1968 un comitato selezionato della Harvard Medical School pubblicò un rapporto per ridefinire con grande novità questo concetto. Secondo i loro studi la morte del paziente non è più correlata alla cessazione dell’attività cardiocircolatoria, ma dell’attività cerebrale. Questa definizione è difesa e condivisa anche da Singer. Secondo il filosofo australiano infatti la morte avviene quando non sono più funzionali le capacità cerebrali di riconoscimento dell’ambiente circostante. Di opinione divergente è invece Hans Jonas. Il filosofo tedesco sostiene che la definizione di morte cerebrale altro non è che una grande finzione per risolvere i problemi morali. Secondo Jonas infatti questa concezione non può valere come definizione ma solo come criterio. Queste le sue parole “il Rapporto a rigor di termini, non ha definito la morte,la condizione estrema stessa, ma un criterio affinché essa si verifichi senza ostacoli, ad esempio staccando il respiratore”. La concezione di morte cerebrale dunque servirebbe solo come argomento per la liceità nell’utilizzare le nuove tecnologie sui pazienti.

Dario Montano

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