Il buon selvaggio di Rousseau “prende vita” con il cartoon dei Flintstone

“Wilma la clavaaaaa” chi non ha mai sentito questa frase? Sono i Flintstones o il buon selvaggio? 

 

Tutti noi nella nostra vita ci siamo ritrovato a vedere i cartoon, indi per cui tutti noi conosciamo (chi non li conosce recuperi) i Flintstones, la famiglia di primitivi più famosa della TV, ma se gli autori si fossero ispirati a Rousseau e il mito del buon selvaggio? Scopriamolo insieme.

I Flintstones, la più famosa famiglia di carvenicoli in cartoon

Gli antenati (The Flintstones, nota in Italia anche come I Flintstones), è una serie televisiva a cartoni animati prodotta dalla Hanna-Barbera creata nel 1959 da William Hanna e Joseph Barbera con il contributo di Dan Gordon, che fece il suo debutto il 30 settembre 1960 sulla rete ABC. Il cartone animato è un’allegoria della società americana degli anni sessanta ambientata nella immaginaria città di Bedrock, nell’età della pietra, con automobili a propulsione umana, enormi sauri volanti usati come aeroplani, altri animali impiegati come elettrodomestici[3], che insieme ad altre trovate hanno fatto della serie una delle più amate e lungamente programmate di tutti i tempi. Il successo della serie televisiva ha portato a produrre riduzioni a fumetti, tre lungometraggi cinematografici nonché a un vasto merchandising. Per antonomasia, Flintstones risulta essere l’unione di due sostantivi in lingua inglese, i quali rimanendo separati la loro traduzione in italiano risulta essere “Pietre focaie”. I protagonisti sono Fred Flintstone, la moglie Wilma e gli amici Barney Rubble e sua moglie Betty che vengono puntualmente coinvolti in vicende nelle quali gli elementi del mondo moderno sono già presenti ma contestualizzati nella preistoria.  Vivono nella immaginaria città di Bedrock, unametropoli moderna dotata di aeroporto, centri commerciali, banche, alberghi, bowling e drive-in. Le loro vicende sono quelle vissute quotidianamente dalle famiglie statunitensi alle prese con i classici problemi del lavoro, della famiglia e dei rapporti di buon vicinato, ma non è tutto convivono con mammut o altri animali estinti, come i dinosauri, come parte integrante della loro vita.

Rousseau ci racconta il mito del buon selvaggio…

Buon selvaggio è la denominazione di un mito basato sulla convinzione che l’uomo in origine fosse un “animale” buono e pacifico e che solo successivamente, corrotto dalla società e dal progresso, diventasse malvagio. Il concetto di buon selvaggio ha connessioni speciali in particolare con il Romanticismo e con la filosofia romantica e illuminista di Jean-Jacques Rousseau. La frase iniziale dell’Émile di Rousseau (1762), che ha come sottotitolo “o dell’educazione” è: «Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo». La concezione è esposta anche nel Contratto sociale, nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, nel Discorso sulle scienze e le arti e in altre opere del filosofo svizzero. Per il pensatore ginevrino la descrizione di Hobbes della natura umana, descritta come sostanzialmente competitiva ed egoista. Per Rousseau occorreva conservare il buono della civiltà, ma riportare la bontà innata della natura nell’uomo, attraverso una pedagogia apposita (in cui il bambino è visto come un buon selvaggio incontaminato dalle influenze esterne), e con riforme politiche.

… E quello del cattivo selvaggio, anche se in realtà cattivo non è.

 

Rousseau vedeva una divaricazione sostanziale tra la società e la natura umana, e affermava che l’uomo venisse corrotto dalla società; vedeva questa come un prodotto artificiale nocivo per il benessere degli individui. Nel Discorso sull’ineguaglianza, illustrò il progresso e la degenerazione dell’umanità da un primitivo stato di natura sino alla società moderna. Rousseau suggeriva che gli uomini primordiali fossero individui isolati, diversi dagli altri animali unicamente per il possesso del libero arbitrio e per la capacità di perfezionarsi. Questi uomini primitivi erano dominati dall’impulso di autoconservazione (“amore di sé”) e da una disposizione naturale alla compassione e alla pietà verso i simili. Quando l’umanità, da piccoli gruppi, fu costretta a vivere in comunità, a causa della crescita della popolazione, subì una trasformazione psicologica, in seguito alla quale cominciò a considerare la buona opinione degli altri come un valore indispensabile per il proprio benessere. Rousseau associava questa nuova forma di consapevolezza a un’età dell’oro della prosperità umana. Al termine del Discorso sull’ineguaglianza, Rousseau spiega come il desiderio di essere considerati dallo sguardo altrui, che si era generato durante l’età dell’oro e avrebbe potuto, sul lungo periodo, corrompere l’integrità e l’autenticità degli individui all’interno di una società, quella moderna, segnata dalla dipendenza reciproca, dalle gerarchie e dalle diseguaglianze sociali.

 

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