Vi è mai capitato di udire la voce del silenzio? Essa può avvolgerci nel suo intimo abbraccio, ma anche attanagliarci nella sua tragica desolazione.
Nel corso della storia dell’umanità ci sono stati dei silenzi che hanno segnato epoche, silenzi talmente penetranti e struggenti da causare lo scoppio di conflitti, da distruggere civiltà intere, da separare persone. Beh, Edipo lo sapeva bene…
La tragicità della conoscenza nell’Edipo Re di Sofocle
Una città assediata da guerra e peste, un “tyrannos” contemporaneamente colpevole e salvatore, un vaticinio tanto necessario quanto infausto, un regno distrutto… questo e tanto altro è l’Edipo Re, una delle più note tragedie della produzione drammatica greca di V secolo, ma al contempo una storia spesso mistificata. Andiamo un po’ avanti… siamo nel 1502, in una calda giornata di metà Agosto quando a Venezia venne sfornata dalle stamperie di Aldo Manuzio la prima edizione dell’Edipo Re, il tutto mentre nella medesima città veneta veniva data alle stampe un’altra opera eufemisticamente celebre: la Poetica di Aristotele. Da allora la fortuna di Sofocle e di uno dei suoi personaggi più amati fu pressoché smisurata: decine e decine di edizioni, rappresentazioni teatrali, riprese cinematografiche (Pasolini über alles). Ma perché tutta quetsta fortuna per un parricida e un’incestuoso? È solo immergendoci nelle tragiche parole di Sofocle che si può tentare di dare una risposta ad un così arduo interrogativo, così da scoprire quanto il figlio di Laio fosse più simile ad ognuno di noi di quanto si possa immaginare… Siamo a Tebe, la città è in preda alla peste, un oracolo rivela il motivo di tante disgrazie: l’uccisione del buon re Laio che per lungo tempo aveva regnato sulla città. Ecco che Edipo, nuovo regnante in seguito all’uccisione della Sfinge, che per tanti anni aveva oppresso Tebe, entra in scena in tutta la sua maestosità e, in qualità di nuovo reggente, proclama un bando che prevede l’esilio per l’uccisore di Laio e per chi lo protegga o lo nasconda. Da questo momento in poi prende il via la strenua ricerca di Edipo della verità, una verità fatta di ricerca, di indagini concrete, di prove, di testimoni che si affastellano sulla scena, pur non sapendo che la persona che stava cercando gli era più vicina di ogni ragionevole pensiero. La città è ripiombata in un caos che aveva vissuto solo ai tempi della Sfinge e di conseguenza, come in ogni pòlis greca che si rispetti, viene chiamato per risolvere l’enigma un indovino, ma non uno qualunque, bensì il celebre Tiresia, uno dei vati più celebri dell’antichità. Il dialogo tra Edipo e Tiresia, con ogni singola parola che lo compone, è centrale nella comprensione generale della tragedia. Tiresia, infatti, una volta interpellato, risponde alle domande postegli da Edipo in modo oscuro, ambiguo, con un uso della sintassi spesso volutamente frastornato pur ben conscio del vero stato delle cose. Una frase su tutte pronunciata dall’indovino ci chiarifica nel modo migliore possibile tale affermazione:
φονέα σε φημί τανδρός οΰ ζητεϊς κυρεϊν
Il problema di una frase del genere è che, anche per chi non conosce la lingua greca, proporre una traduzione italiana rende ancor più incomprensibile la frase rispetto all’oscuro greco. Essa suonerebbe più o meno così:
“Dico tu essere l’assassino di colui che cerchi di trovare”.
C’è chi ha visto già in questa frase la chiara verità rivelata da Tiresia ad Edipo, facendo così di Edipo uno sciocco che non riesce o non vuole comprendere la cruda verità. Tuttavia, un’interpretazione del genere ci allontana profondamente dallo scopo che molto probabilmente si prefiggeva Sofocle a questa altezza della narrazione. Sembra quasi che il tragediografo greco, tramite questo dialogo e ancor di più tramite questa singola frase, voglia farci percepire la profonda oscurità della parole di Tiresia (chi mastica bene il greco si renderà conto, leggendo l’intero dialogo, che le parole di Tiresia risultano tutt’altro che chiare), un indovino che si trova improvvisamente di fronte ad un grande re e, nel dover rivelargli una verità quantomai scomoda, per non essere troppo esplicito può utilizzare solo una strategia: quella del silenzio.
Il dialogo con Giocasta e la scoperta della verità
La razionalità di Edipo, messa alla prova dalle accuse di Tiresia e da una situazione che invece di farsi più chiara risulta sempre più intricata, comincia a vacillare ed il re tebano giunge a prefigurare addirittura un complotto contro la sua persona, un δόλος per dirla alla greca, da parte di Creonte, fratello di Giocasta, in accordo con Tiresia. L’ira di Edipo prorompe senza alcuna misura nel successivo dialogo con Creonte e la sua figura si avvicina sempre di più a quella di un vero e proprio tiranno data la sua collera, la costante ossessione per il complotto, la profonda circospezione, insomma tutte caratteristiche tipiche del più classico tiranno greco! L’entrata in scena di Giocasta mette fine alla disputa tra i due uomini e il suo tentativo di porre un freno alle ire di Edipo si rivela un mezzo attraverso il quale il re si avvicinerà sempre di più alla comprensione della verità. Giocasta infatti, per convincere Edipo circa la poca fede che deve porre nelle parole dell’indovino, cita un antico oracolo secondo il quale Laio sarebbe stato ucciso dal figlio, cosa impossibile poiché ad ucciderlo erano stati alcuni banditi sulla strada per Delfi, “là dove si incontrano tre strade”. Queste parole provocano un sussulto nel giovane re, colto da un improvviso turbamento. Alla richiesta di spiegazioni di Giocasta, Edipo le racconta la sua storia: lui, figlio del re Polibo di Corinto, avendo ricevuto un oracolo per il quale un giorno avrebbe ucciso il padre e sposato la madre, era fuggito via da Corinto per stare il più lontano possibile dai genitori e durante la fuga, giunto in un punto “là dove si incontrano tre strade”, aveva ucciso un uomo con la sua scorta in seguito a un diverbio, finché infine non giunse a Tebe. Le cose si fanno lentamente più chiare finché i nodi non verrano sciolti definitivamente da un messaggero proveniente da Corinto, giunto a Tebe per annunciare la morte di Polibo. Edipo sembra rassicurato da tali parole perché risulta chiaro che se Polibo era morto mentre lui si trovava a Tebe non poteva essere stato Edipo in persona ad uccidere il padre! Beh, così sembrerebbe, l’oracolo parrebbe aver predetto una sciocchezza… peccato che il messaggero prima di andar via annuncia ad Edipo un’altra scioccante verità: Polibo era solo il padre adottivo di Edipo che, ancora in fasce, era stato portato da un contadino della casa di Laio a Corinto, dove di lì in avanti sarebbe stato allevato da Polibo e la moglie. Giocasta ha ormai compreso tutto: Edipo, scappato da Corinto in seguito all’oracolo, aveva ucciso al trivio Laio, suo vero padre e, una volta giunto a Tebe, aveva sposato la madre, cioè Giocasta stessa. Nel dialogo con il messaggero vediamo una Giocasta che sembra voler tenere Edipo il più lontano possibile dalla verità e di dissuaderlo dalla ricerca che ha intrapreso, un tentativo che non è tipico della sola Giocasta, ma un po’ di tutti i personaggi che si affastellano sulla scena intorno al solo re tebano: Edipo è quel personaggio che non deve sapere e tutti coloro che ruotano intorno a lui hanno il compito di occultare la verità, come Creonte e i Tebani che non indagano, Tiresia e il suo “parlare oscuro”, il messaggero di Corinto che racconta o verità involontarie o mezze verità (Edipo alla fine giungerà addirittura a minacciarlo di tortura!) e Giocasta, il più drammatico antagonista di Edipo. Ecco che le parole del Coro dopo l’uscita di scena di una Giocasta angosciata, ormai prossima al suicidio, sintetizzano la forza e la drammaticità di tutti questi silenzi che cercano di coprire nel manto dell’ignoto quella verità di cui Edipo si fa fino alla fine garante:
Perché partita è la tua donna? Io temo che dal silenzio gravi mali scoppino!
Quel frastuono del silenzio che Simon and Garfunkel resero leggenda
L’umanità, nell’avvicendarsi delle epoche, è spesso riuscita a mostrare, oltre al peggio, anche il meglio di sé, dando vita ad opere d’arte che rendono la quotidianità del nostro passeggero viaggio in questo mondo più luminosa e degna di essere vissuta. Ogni forma artistica, infatti, ha quel magico ed unico potere di guardare oltre il momento, oltre quell’hic et nunc cui spesso ci ancoriamo come cozze al loro scoglio e di fuggire da quella necessità contingente che ci circonda nella freddezza dell’esistenza di ogni giorno. A ciò poi si aggiungono quelle creazioni artistiche che, pur sfruttando la stessa innata capacità dell’arte, se ne servono per un fine più nobile e concreto: trasportare quell’hic et nunc del mondo reale in una nuova dimensione, così da fargli assumere dei connotati tramite i quali esso possa squarciarsi nella sua essenza più profonda. Una prova di tale potere insito in ogni forma artistica ce la fornisce una canzone, anzi una poesia del 1964, anno in cui un duo statunitense, Simon & Garfunkel, si prefissarono uno scopo quantomai audace: raccontare il suono del silenzio. i cui echi sono percepibili ancora ai giorni nostri. Come se ci trovassimo di fronte ad un carme di un autore dell’antica Grecia, il brano si apre con una sorta di invocazione a una Musa, che assume le sembianze dell’oscurità, della notte che ha il compito di ispirare il poeta e di immergerlo in una visione onirica che diventa il fulcro dell’intero componimento. E così, troviamo all’improvviso l’io poetico catapultato in un luogo deserto, silenzioso, illuminato solo da una luce fioca ed in cui è costretto a percorrere lunghe strade strette, finché un lampo di luce abbagliante non squarcia il suono del silenzio. Agli occhi del poeta appaiono improvvisamente all’interno di quella luce migliaia di persone che parlano senza comunicare, che sentono senza ascoltare, che scrivono canzoni che non verranno mai cantate: è l’incomunicabilità a fare da padrona, ad esercitare il suo dispotico controllo in una Babele in cui i vari suoni non fanno altro che esprimere il più drammatico vuoto esistenziale possibile. L’apparizione del Profeta tenta di porre un freno a tale vuoto tramite una frase che può a buon diritto essere considerata la più emblematica e potente dell’intera canzone:
Silence like a cancer grows
Sveglia uomini! Il silenzio si sta espandendo come un cancro! Accusa il Profeta… ma le sue parole sono destinate a cadere inascoltate “come gocce di pioggia silente”. Ecco che quell’oscurità che aveva caratterizzato l’inizio della visione immaginifica del poeta, squarciata dalla luce del neon, si trasforma nella luce più splendente: è però una luce fredda, una luce falsa come quelle dei fasci di luce delle metropolitane o delle insegne delle grandi città. Questa luce è destinata a ricoprire l’intero mondo sopendo le parole del Profeta, le quali, seppur inascoltate, non muoiono mai del tutto, perché mantengono tutta la loro forza “in the sounds of silence”.
Le parole del duo statunitense, scritte ben 56 anni fa, risultano al giorno d’oggi avere una portata profetica incredibile, un’anticipazione di ciò che il mondo sarebbe diventato di lì a pochi anni: un mondo caratterizzato dal dominio incontrastato del “Dio neon”, della luce che abbaglia e cela volutamente il vuoto esistenziale nel “suono del silenzio”. È la metafora di tutti quegli schermi artificiali, così luminosi quanto falsi, che ci fanno a loro volta da schermo dalla vita reale, dalla comunicazione con gli altri, ponendoci all’interno di un’esistenza fasulla e materialista che trova conforto nel conformismo e nella cieca obbedienza ad un “sistema” che, seppur ingannevole, ci fa sentire grandi perché ci garantisce un equilibrio che un “velo di Maya” svelato non ci potrebbe più garantire. Eppure quel velo di Maya necessita di essere svelato, quel suono celato all’interno del silenzio deve essere ascoltato in tutta la sua potenza perché è grazie ad esso che possiamo imparare ad essere uomini e come tali a comunicare con altri uomini. Percepiamo il silenzio, ascoltiamolo, nutriamoci di esso… solo così potremo accorgerci di quante parole, per così tanto tempo inascoltate, ci possa trasmettere.
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