Gulliver e Heidegger: qual è il senso più profondo del linguaggio?

Dato che ogni parola è semplicemente il nome di una cosa, sarebbe più conveniente a chiunque portarsi addosso tutte le cose necessarie a esprimere particolari affari di cui vuol parlare. Parecchi fra i più dotti e i più saggi hanno aderito a questo nuovo modo di esprimersi attraverso le cose; unico suo inconveniente è che, se dobbiamo trattare affari complessi e di vario genere, siamo costretti a portarci sulla schiena una montagna di oggetti”. (Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver in paesi lontani).

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In uno dei suoi viaggi straordinari, Gulliver, il protagonista delle imprese narrate da Jonathan Swift, apprende le regole del linguaggio artificiale adottato dalla Grande Accademia di Lagado. Con l’obiettivo di migliorare la lingua del proprio paese, infatti, gli abitanti e gli accademici si misero a tavolino per stabilire una nuova forma di comunicazione. Il nuovo linguaggio di Lagado, proposto in chiave ironica per semplificare la complessità e la lunghezza dei discorsi, verte sulla convinzione per cui tutte le parole si riferiscono ad oggetti specifici e che, dunque, anziché parlare potremmo semplicemente mostrare le cose che sono oggetto della nostra, non più, “conversazione”. In altre parole, sarebbe quindi meglio eliminare completamente questo inciampo e ostacolo che è il linguaggio per evitare l’arduo processo di denominazione delle cose. Sulla base di queste “fantastiche” e surreali convinzioni, risulterebbe impossibile esprimere i nostri sentimenti, formulare frasi e interagire con gli altri. Cosa dovrebbe mostrare o indicare un uomo per esprimere il suo stato di felicità? O come farebbe a dire “ti amo” o “ti odio”?

Nella sarcastica e paradossale citazione di Swift, lo scrittore mostra come il linguaggio non possa ridursi ad un uso meramente denotativo o dichiarativo, le parole non possono riferirsi solo a “cose”. Ed è in questa direzione che il linguaggio assume una sua forza intrinseca, una propria autonomia e una funzione vitale che la eleva ad elemento costitutivo dell’essere umano, non solo ad un mezzo comunicativo. Preposizioni, enunciati, parole e lettere rappresentano dunque la forma del pensiero, l’unico modo attraverso il quale poter elaborare informazioni ed esprimerle. La filosofia del linguaggio indaga proprio questa stretta connessione tra pensiero e lingua, assumendo diverse interpretazioni: da quella logico-analitica di Frege e Russel, a quella dell’ermeneutica.

Il linguaggio come la casa dell’essere

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È con la “svolta linguistica” del 1967 che le questioni legate alla comunicazione vengono tematizzate e considerate in sé e per sé. In tal senso, uno dei più grandi contributi arriva da Heidegger che scrive: “Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora.” (“Lettera sull’Umanismo”). Con queste parole si capisce ora il messaggio di Swift: i termini non possono essere in alcun modo delle mere testimonianze di cose o fatti, esse hanno l’onere di svelare il senso più profondo del mondo abitato dall’uomo. Heidegger, infatti, si interroga non tanto sul rapporto tra le parole e gli oggetti, quanto più sul senso intrinseco dell’atto del comprendere. Ed è in questi termini che si può interpretare la metafora heideggeriana della casa: il linguaggio dà forma al nostro stesso essere, è una bussola che consente all’uomo di orientarsi nella vastità del mondo. Tradizionalmente il linguaggio è considerato come circoscritto nei confini della semplice comunicazione verbale, totalmente al servizio dell’uomo. Heidegger invece, ribaltando questa prospettiva, afferma che il parlare è ciò che colloca l’uomo nella storia, ciò che gli permette di comprendere il proprio essere. L’essenza più profonda del linguaggio risiede dunque nella sua capacità di rivelare l’essenza storica dell’uomo.  Quest’ultimo, infatti, non crea il linguaggio, ma nascendo lo “eredita” e trova già in esso la “casa dell’essere” in cui ognuno è libero di esperire le complessità del proprio pensiero. Ecco perché, secondo Heidegger, non è l’uomo ad essere padrone della lingua, ma è la lingua ad orientare il pensiero dell’uomo e il suo rapporto con il mondo.

 

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