Si può affermare con certezza che il più grande desiderio che ogni uomo si porta nel cuore è quello di essere felice. La felicità è quella condizione di benessere interiore che illumina il volto e che conferisce pienezza alla vita. Eppure i Thegiornalisti la definiscono “puttana” e Leopardi potrebbe essere d’accordo con loro.

Possiamo essere davvero felici? E questa felicità può essere eternamente godibile o è destinata a finire e a scivolarci via dalle mani? Sia i Thegiornalisti con la loro canzone “Felicità puttana” che Leopardi nelle sue opere sembrano essere d’accordo sul fatto che la felicità non possa davvero essere posseduta ma consista più in un’illusione momentanea destinata ad estinguersi in un soffio.
La felicità che purtroppo “dura un minuto”
Ma quanto è puttana
Questa felicità
Che dura un minuto
Ma che botta ci dà

Leopardi ci spiega che l’infelicità è inscritta nel DNA dell’uomo
Il grande poeta Giacomo Leopardi, nato a Recanati nel 1798, fa della tensione perpetua verso felicità destinata al fallimento il cardine della sua riflessione filosofica e poetica. Per lui la felicità consiste nel piacere materiale. Non si tratta di un piacere qualunque, ma il piacere in astratto che ha la caratteristica di essere infinito sia per estensione, perciò illimitato, che per durata, dunque eterno. L’uomo porta nell’animo questo anelito inappagabile di una felicità che non può ottenere in quanto i piaceri sono tutti finiti, limitati e circoscritti e non concedono solo che un breve godimento. Potremmo dire che anche per Leopardi il piacere dura un minuto, anzi forse anche meno, e come il poeta anche i Thegiornalisti identificano la fonte della gioia, da loro cantata, in elementi e situazioni contingenti, terrene, e non in principi metafisici e trascendenti. Bastano poche e piccole cose per svagarsi e provare un po’ di serenità, anche se incompleta.
Quelle code infinite di macchine
Che si vedono al telegiornale
Mi mettono di buon umore
Come gli stabilimenti balneari
E il cielo quando è tutto azzurro
Il piacere è dunque irraggiungibile e l’infelicità è connaturata nell’essere umano che non ha gli strumenti per soddisfare la brama del suo cuore e quindi rendere sensata la propria esistenza. L’unico modo che rimane agli individui è appunto l‘errare, girovagare senza meta precisa con la mente, un errare che è anche errore, sbaglio conscio perché entra in gioco l’immaginazione che si discosta dalla cruda verità. Solo grazie all’immaginazione, all’abbandonarsi a questa illusione che il singolo può sopravvivere senza lasciarsi soffocare dall’incombere dell’acerbo vero svelato dalla fredda ragione.

Solo nelle illusioni si può assaporare un pizzico di felicità
I fanciulli possiedono intensamente questa capacità di commuoversi e lasciarsi scaldare il cuore dall’immaginazione. Grazie ad essa possono figurarsi piaceri infiniti e non guidati dalla stringente e opprimente razionalità si creano progetti e speranze anche di poco probabile realizzazione. Proprio come Silvia, simbolo della speranza giovanile, alla quale il poeta in un’atmosfera di rarefatta, avvolgente e tenera dolcezza, si rivolge così:
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
È proprio in questa indefinitezza, imprecisione e ‘vaghezza‘ che si trova un rifugio dal senso nullità che permea di tedio tutte le cose e dalla radice malvagia della vita, “è funesto a chi nasce il dì natale” (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Per Leopardi le illusioni, seppur vane, sono l’unico modo che l’uomo ha per rendere più vivibile la vita, sono una sorta di ‘velo di Maya’, un inganno necessario e voluto, ma talmente sottile che lascia trasparire in controluce la desolazione agghiacciante annidata nell’esistere. Distrarsi, non pensare alla miseria della condizione umana e “naufragare” nel mare delle illusioni è ciò che più o meno anche i Thegiornalisti affermano in questo tormentone.
E l’aria che sa di sale
E tutti ci vogliamo baciare
E tutti ci vogliamo baciare
E il sole che ci fa bene
Alla pelle, agli occhi, alle ossa
E non ci fa pensare
La gioia da loro descritta è appunto in potenza, non in atto, ed è tutta racchiusa nel fantasticare emozioni elettrizzanti e momenti rigeneranti. Risiede principalmente nelle aspettative, come nel celebre componimento “Il sabato del villaggio”:
Questo di sette è il piú gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier fará ritorno.
In conclusione sia il complesso musicale romano che il poeta dei “Canti” potrebbero essere d’accordo nel definire “puttana” la felicità. Massimamente desiderabile, ma inafferrabile e ingannatrice, un sentimento bellissimo eppure sfuggente, dalla durata troppo breve che lascia l’uomo perennemente inquieto e frustrato.
