Quando i remi della vita sembrano procedere con vento favorevole è facile porre un essere superiore come motivo della nostra prosperità… ma cosa succede quando la sofferenza prende il sopravvento?
Da qualche mese l’intero mondo è sprofondato nella sofferenza, quella di chi da un giorno all’altro si è visto privato dalla propria quotidianità, quella di chi ha dovuto combattere tra la vita e la morte nella solitudine più assoluta, quella di chi ha appreso da lontano la morte di un genitore, di un nonno, di un amico. Dov’era il nostro Dio mentre il mondo che con tanta cura ha creato cadeva a pezzi?
Eschilo e Bacchilide a confronto con le divinità: δαιμόνων που δέ χάρις?
A scuola siamo soliti trovare nei manuali di letteratura greca la grande “triade tragica” incarnata da Eschilo, Sofocle ed Euripide, la quale ci viene solitamente presentata in una sorta di ottimistico progresso che vede in Eschilo il più arcaico dei tragici, ancorato ad una visione onnicomprensiva del divino, in Sofocle quel tragico che fa assumere alla figura umana una maggiore importanza a danno di quella ultraumana ed in Euripide il rivoluzionario per eccellenza (non a caso poi tanto criticato nelle commedie aristofanee). Le cose, come sempre nella vita, non possono essere affrontate in maniera così schematica e separatrice e una delle tragedie eschilee più note, l’Agamennone, può svolgere per noi un’azione fortemente chiarificatrice circa questo aspetto. Siamo nel periodo antecedente alla guerra di Troia ed il sovrano della polis greca di Argo, Agamennone, non avendo venti favorevoli per la spedizione, decise di consultare l’indovino Calcante per scoprire come poter propiziarsi gli dei. L’unica soluzione offerta al sovrano da parte dell’indovino consisteva nella più grande tragedia che la storia ci abbia tramandato: il sacrificio della figlia Ifigenia. Ecco che, una volta sacrificata la figlia, i venti tornarono ad essere favorevoli, la flotta partì e, dopo 10 anni di assedio, Troia venne conquistata. Peccato che a casa, ad attendere Agamennone, c’era sua moglie Clitemnestra la quale, decisa a vendicare la figlia, tramava l’uccisione del marito insieme all’amante Egisto. Come solito nelle tragedie greche, le varie sezioni narrative in cui si dipanano le vicende che ho narrato poc’anzi sono intervallate da sezioni corali, i cosiddetti stasimi, in cui il coro esprime paure, riflessioni, opinioni circa i fatti che si stanno svolgendo sotto i suoi occhi. In particolar modo, nell’Agamennone il coro è costituito dai vecchi Argivi che danno vita, nel primo stasimo della tragedia, a uno dei più celebri inni che l’antichità ci abbia tramandato: l’inno a Zeus. In questo inno viene esplicitata la dura legge di Zeus per cui solo tramite la sofferenza si può giungere al μάθος, all’apprendimento, una legge che, come dice il coro, “spira nel sonno davanti al cuore in forma di un affanno memore delle sofferenze passate”. Ed è proprio questa legge che rappresenta la grazia divina, quella cosiddetta χάρις δαιμόνων che tanti problemi ha fatto patire agli editori della tragedia eschilea. Eschilo qui sembra quasi riprendere una domanda presente all’interno del terzo epinicio di Bacchilide, uno dei maggiori lirici greci insieme a Pindaro, che in questo canto ha il compito di celebrare Ierone, sovrano di Siracusa e lo fa in un modo abbastanza particolare: se la consuetudine voleva che un sovrano venisse celebrato tramite il suo accostamento ad una figura divina, Bacchilide al contrario decide di paragonare Ierone a Creso, re dei Lidi, figura storica. Il paragone avviene tramite il racconto del giorno più infelice del sovrano della Lidia, quello in cui la sua terra era ormai nelle mani di Ciro e lui, insieme a tutta la sua famiglia, venne posto sulla pira “cercando si sfuggire alla schiavitù dalle molte lacrime”. Ecco che, un attimo prima della triste fine, Creso, che era stato un sovrano tanto pio quanto giusto, si rivolge al cielo emettendo un urlo, un urlo straziante che squarcia le nubi e sembra penetrare il manto celeste. Il grido di Creso è la voce di un giusto defraudato della sua ricompensa, un giusto ricolmo di pietas nei confronti degli dei e che ora si vede punito con la morte senza aver commesso nessuna colpa. Dov’è la tua grazia, oh grande Zeus? Dice Creso dando così sfogo alla domanda più antica del mondo. Dov’è Dio quando soffriamo un male senza averlo meritato, dov’è la teodicea quando il giusto soccombe e l’ingiusto prospera? Eschilo riprende quasi pedissequamente la domanda che Bacchilide aveva posto sulla bocca di Creso morente ma l’obbiettivo del tragediografo è profondamente diverso rispetto a quello del lirico, Eschilo non voleva porre sulle labbra del coro angosciato per la sorte di Agamennone, per il prodigio di Aulide (prodigio che seppur aveva permesso la partenza della flotta greca per Troia aveva allo stesso tempo fatto adirare la dea Artemide), una domanda così dirompente, bensì la trasforma in una tragica affermazione:
Δαιμόνων που δέ χάρις
Questa forse è la grazia degli dei
Una grazia, in fin dei conti, che è comprensione del dolore, un dolore che serve agli uomini perché tramite essa si può giungere ad un μάθος, un apprendimento, ad accettare il proprio posto nella storia e nella società rinunciando agli eccessi ed aderendo a quell’ordine universale che risiede nella giustizia di Zeus.
Quare aliqua incommoda bonis viris accident: Seneca alla ricerca della provvidenza divina
Le riflessioni circa la presenza di una provvidenza divina hanno interessato anche il mondo latino e sono senz’altro centrali in uno dei nove Dialogi del letterato e filosofo romano Lucio Anneo Seneca: il De Providentia. L’obiezione con la quale i sostenitori di una provvidenza si erano da sempre dovuti scontrare era quella di Epicuro, filosofo materialista che nei suoi scritti, giuntici purtroppo solo in modo frammentario, aveva sviluppato una solida argomentazione incentrata sull’ingiusta divisione di beni e mali tra i buoni e i malvagi e che lo aveva portato a concludere, di fronte all’evidenza del male, o che Dio non esiste o che, se pure esistesse, comunque non influirebbe sulla vita dell’uomo in modo benevolmente provvidenziale. I tentativi di fornire una risposta a questa argomentazione furono molteplici, tutti basati sulla teodicea, sebbene i più legati dalla ricorrenza di alcuni temi o soluzioni, tendenti non tanto a confutare la critica così ben formulata da Epicuro, quanto piuttosto a minarne le basi, eccependo sulla natura, sull’origine o sulla funzione del “male”. Altri, convinti che il mistero della sofferenza e di Dio non sarebbe mai potuto essere pienamente spiegato, erano giunti a concludere che cercare una risposta razionale e definitiva alla “domanda più antica del mondo” risulta impossibile a causa delle limitate capacità di comprensione di un essere finito nei confronti di un essere eterno quale un Dio dovrebbe essere. Ecco allora che Seneca, convinto da buono stoico che il mondo debba essere retto da un λόγος, un discorso razionale coincidente con la φύσις, la Natura, era dell’idea che Dio non fosse tanto un ente esterno e creatore dell’Universo, come si è abituati a intenderlo oggi per effetto della concezione cristiana, quanto piuttosto immanente ad esso, un fuoco che lo anima e lo pervade. Ogni avvenimento, in quanto prestabilito, scorre obbedendo ad una successione dettata dal Fato e la libertà umana soccombe, secondo quel detto di Cleante tanto amato da Seneca per cui “Il Fato conduce chi vuole essere guidato, trascina chi non lo vuole”. Sulla base di queste considerazioni, quando Seneca interviene nel De Providentia sul problema della teodicea cerca di giustificare il male, i cosiddetti incommoda che toccano anche all’uomo pio in modo molto simile a come avrebbe fatto qualche secolo dopo Agostino: la divinità sottopone il saggio a tali mali per temprarlo, metterlo alla prova, esercitarne la virtù che in caso contrario non avrebbe modo di brillare. Solo il saggio, infatti, più affrontare i vari accidenta della vita e sono proprio i mali a renderlo superiore rispetto agli altri, perché se l’uomo comune di fronte ad un ingente pericolo soccombe, il saggio non si piega, dal momento che la Provvidenza lo ha fornito di tutti i mezzi per garantire il trionfo della virtus.
Dov’è finito il nostro Dio ai tempi del Coronavirus?
9 Marzo 2020: nella nostra amata penisola il tempo si blocca improvvisamente e con esso i luoghi, le persona la vita. Quello che ognuno di noi era abituato a fare, ogni singola abitudine che eravamo soliti definire “quotidiana” nel tempo della nostra vita passata, da quel triste giorno così quotidiana non sarebbe più stata per trasformarsi in una conquista da ricercare tramite una “normalità” che non avevamo mai sperimentato. Ed ecco insinuarsi nel dizionario d’uso di tutti noi Italiani un termine tanto arcano da poter precedentemente uscire unicamente dalla bocca di chi padroneggiava un lessico più forbito, ma che ora è diventata forse la parola più diffusa e conosciuta tanto da non provocare meraviglia se pronunciata da un fanciullo in età puerile: ASSEMBRAMENTO. Beh forse fino a qualche mese fa eravamo soliti parlare di aggregazione, di unione, di raggruppamenti di persone… peccato che da un giorno all’altro lo stringere la mano ad un essere umano sarebbe diventato il gesto più ardito di questo mondo e un concerto o una partita allo stadio il centro nevralgico della diffusione di una pandemia mortale. Ed ecco così che quell’ “animale sociale” affamato di interazioni sociali si è trovato imprigionato in una gabbia per paura del suo simile, le file che prima si potevano creare dinnanzi ad un palazzetto dello sport hanno cominciato a caratterizzare gli ingressi dei supermercati, unica ora d’aria per l’animale sociale di evadere dalla sua gabbia, ed un silenzio irreale ha ammantato i luoghi della nostra vita. Da un giorno all’altro poi ci siamo trasformati in un popolo di epidemiologi padroneggianti il termine R0 come forse prima padroneggiavamo un pallone da calcio in un campetto di provincia, in un popolo di economisti pronti a stigmatizzare un provvedimento noto come ‘Mes’ come se fosse il più grande male che ci potesse intaccare, casomai senza nemmeno conoscerne i termini… e come se non bastasse il nostro lessico si è anche anglicizzato, facendo divenire usuale un lemma che forse nemmeno un britannico era solito padroneggiare: lockdown. Forse parlare di “chiusura totale” ci faceva un po’ paura, forse pensare ad un’Italia bloccata era eccessivamente ardito… meglio parlare di un’ “Italia protetta”. Protetta da cosa? Da un essere invisibile che in una sola regione, il motore della penisola, ha mietuto più vittime in due mesi di quanto non fosse riuscita a fare la Seconda Guerra Mondiale in cinque anni. I numeri sono ormai noti a tutti e non ritengo sia proficuo riportare crudi dati che ormai tutti conosciamo tramite quell’appuntamento delle 18:00 divenuto ormai lo show più attraente e con lo share più alto degli ultimi tempi: il bollettino della Protezione Civile. Dietro tutti quei numeri ci sono persone in carne ed ossa che fino ad un giorno prima conducevano quella vita “quotidiana” dalla quale sono state strappate in una forma ancor più virulenta (altro termine tecnico involontariamente apparso nel mio vocabolario dell’uso) rispetto a noi e che si sono trovate attaccate ad un ventilatore polmonare senza la possibilità di respirare autonomamente e con la consapevolezza di poter non vedere più i loro cari, che avrebbero nel migliore dei casi appreso la loro morte attraverso una chiamata. Fosse comuni, mezzi dell’esercito che traportano cadaveri, medici costretti a decidere tra la vita di più persone, casomai seguendo un puro criterio anagrafico… appurato che tutto ciò non sia parte di un film, ma di quella che siamo abituati a chiamare “vita”, una domanda sorge spontanea: dov’è il nostro Dio ora che ne abbiamo più bisogno? Ci sta mettendo alla prova come diceva Seneca? Ci sta mostrando la via dell’apprendimento tramite la sofferenza come diceva Eschilo? Beh andatelo a spiegare alla famiglia di Vitor, adolescente di soli 14 anni perfettamente sano fino quando il virus non gli ha devastato i polmoni, o a quella di Luca, diciannovenne di Teramo morto a Londra lontano dagli occhi dei suoi genitori. Possono mai queste essere chiamate “prove”? Può mai il Dio buono della tradizione cristiana permettere che un bambino innocente muoia in questo modo così tragico? Forse siamo tutti un po’ soli, forse dove le nostre forze non arrivano possiamo solo sperare che la τύχη sia dalla nostra parte, forse possiamo solo farci forza l’un l’altro, umano con umano, sostenendoci a vicenda nei momenti di sofferenza e provando ad affrontare i pericoli che la Natura ci pone di fronte confidando in noi, dandoci forza, tenendoci per mano… anche se per ora solo virtualmente.