La città. Potrebbe sembrare aver poco di poetico o che poche siano le opere su questo argomento. In verità, non è così. Ecco il collegamento tra De André e Umberto Saba.
Le città sono sempre state il riflesso -per parte- dell’uomo. Come noi sono cresciute con i tempi, sono cambiate, si sono adattate alle nostre esigenze e alle nostre aspettative. Sono un po’ la nostra culla, la nicchia dove vivere e rifugiarsi quando se ne sente il bisogno. Eppure ognuna di queste nasconde come un catalogo di tipi, di persone diverse tra loro. Qui la città di Saba e quella di De André.
Fabrizio De André e il suo pensiero
Com’è ben noto, De André è uno dei maggiori cantautori italiani, uno di coloro i quali ha lasciato un segno profondo non solo per la sua musica, ma soprattutto i suoi racconti e le sue parole. De André non lascia dietro nessuno, anzi. I suoi preferiti -se così possiamo dire- sono coloro che vengono dimenticati, accantonati e fatti da parte. In una parola: gli ultimi. Sarebbe bene cercare di capire cosa abita dietro questo interesse e soprattutto cosa ne pensa lo stesso Faber. In una intervista fatta in Sardegna nel 1997, De André esprime la sua opinione sull’abisso che intercorre tra quelli che lui definisce maiores -dopo aver spiegato anche l’etimo e il cambiamento che la parola ha subito nel corso del tempo- e la gente comune, cioè “noi”. Lo fece in occasione dell’uscita del suo album Anime Salve in collaborazione con Ivano Fossati, pubblicato dopo rispetto alla canzone cui stiamo facendo riferimento. Questa prima, piccola premessa ci aiuta a creare le basi per la comprensione del pensiero di De André, e per comprendere la sua suddivisione sociale. Quelli di cui racconta in questo caso sono quelli dimenticati da Dio, assunto che servirà dopo per paragonare la sua Città a quella di Saba, a cui si ispira.
Se ti inoltrerai lungo le calate
Dei vecchi moli
In quell’aria spessa carica di sale
Gonfia di odori
Lì ci troverai i ladri gli assassini
E il tipo strano
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“La Città Vecchia” di Faber
“La Città Vecchia” di Fabrizio De André risale al 1966, pubblicata come 45 giri e avente come secondo lato “Delitto di Paese”. Visto che si è già più volte fatto riferimento alle città, è lecito chiedersi dove il cantautore decide di ambientare il suo racconto. Siamo nella sua cara Genova, capoluogo ligure tanto amato, che ha raccontato per scorci nelle sue canzoni. Basta ricordare Sant’Ilario, quartiere citato in “Bocca di Rosa” o Via del Campo, strada che dà titolo a una delle sue canzoni più amate. Anche “La Città Vecchia” canta Genova e lo fa ripercorrendo tutti quei quartieri “[…] dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”. Per rendere ancora più chiaro questo legame indissolubile, ecco le parole dello stesso autore (come riportato da genovatoday.it):
Genova per me – disse – è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha partorito e allevato fino al compimento del trentacinquesimo anno di età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Oggi a me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei suo carruggi, gli esclusi che avrei poi ritrovato in Sardegna, le “graziose” di via del Campo
Genova ha quindi per lui “la faccia di tutti i poveri diavoli […] gli esclusi”. In questa sua canzone infatti, l’esordio è la chiave del tutto. “Nei quartieri dove il sole del buon Dio/non dà i suoi raggi/Ha già troppi impegni per scaldar la gente/d’altri paraggi”. Ancora una volta stiamo parlando degli esclusi, di chi quasi non esiste per il resto, ma che tanto vive per De André. Se passassimo in rassegna e in ordine “i tipi” che ci propone ritroviamo: una bimba, il cui destino sembra già segnato; quattro pensionati che attorno ad un tavolino maledicono le donne e il governo; un vecchio professore che placa le sue voglie; una prostituta; i ladri, gli assassini e il tipo strano. Un catalogo quindi, che porta dietro con sé i frammenti di chi sembra esistere solo fisso in determinate forme, quando De André sa bene che non è così. Con questi viene anche approfondita un po’ la fisionomia della città: i quartieri, le calate, i moli e altri piccoli spazi di vita, in un atmosfera che sembra essere velata di rassegnazione, odori strani, ma anche di una profonda consapevolezza.
La poesia di Umberto Saba e le differenze con De André
Siamo sempre in Italia, ma questa volta ci spostiamo a Trieste, anche questa città molto evocativa. De André crea sia delle assonanze che delle differenze con la città di Saba, che vanno oltre la scelta dell’ambientazione. Questa poesia, nello specifico, si trova all’interno del Canzoniere di Saba, nella racconta “Trieste e una Donna“. E’ stata pubblicata con il Canzoniere nel 1921 e riprende il centro storico di Trieste, quello che appunto viene chiamato “Città vecchia”, come riferisce il titolo del componimento. Saba porta con sé -e così lo segue De André- una serie di persone che possono essere indicati -utilizzando i suoi termini- come “umili”. La descrizione che dà degli uomini in questa poesia è -per parte- la seguente:
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Subito dopo le prostitute, il marinaio, vecchio che bestemmia, la femmina che bega e altri ancora che vengono abbracciati dal verso “tutte creature della vita e del dolore; /s’agita in esse, come in me, il Signore”. E’ questa una delle spie e una delle differenze più importanti tra Umberto Saba e Fabrizio De André.
Se Saba descrive i suoi umili come merci e detriti, questi hanno pur sempre con loro Dio; quelli di De André invece, no.
Hanno in comune quella che sembra essere una certa rassegnazione. Vero è che i personaggi di De André e quelli di Saba non hanno, purtroppo, forse nemmeno i mezzi per riscattarsi, ma nessuno dei due prende le distanze da loro. E’ uno sguardo allora, che porta con sé tutto: sia la città che coloro che la abitano. Non a caso le conclusioni sono quasi parallele: Saba si sente in compagnia con i suoi umili e De André riporta uno dei suoi versi più famosi “Se non sono gigli son pur sempre figli/vittime di questo mondo”.
I capisaldi di Saba: religione, populismo e dolore
E’ ormai chiaro come De André abbia scelto di parlare degli esclusi, ed è un aspetto solitamente molto evidente o comunque approfondito. Anche Saba però non lascia indietro nessuno.
Saba è un intellettuale ed è per questo che non può prendere parte -almeno non in pieno- a ciò di cui sta raccontando. Se da un lato questo gli permette di essere poeta; dall’altro non gli li permette di partecipare pienamente a quel mondo che potrebbe essere definito “istintivo”. Allo stesso tempo si percepisce una forte connotazione religiosa, questo perché secondo Saba Dio si “agita” in tutte le creature, compreso lui e suoi personaggi. Segue anche un alone di dolore che contrassegna tutta la stesura e che si associa -non solo in questo caso ma anche in un altro dei suoi componimenti “La Capra”- al concetto di vita. A parere del poeta, come si evince da questa poesia e anche da altre, la vita è dolore.