Dalla poesia del novecento a “Wild Robot”: ecco come umanizzare le macchine

L’ultimo film di animazione della DreamWorks sta spopolando al cinema, grazie ad una grafica e una trama che ricalcano il passato.

Quando ci si immagina il futuro si pensa sempre alle macchine volanti, a città super tecnologiche e in generale all’avanguardia della scienza e della tecnologia. Molto spesso, quindi, non si pensa a quello che potrebbe essere il futuro per le arti e per tutto ciò che è più umano. Si pensa al futuro con il pallino del progresso tecnologico, che vada quindi ad agevolare la vita degli esseri umani. Questa visione potrebbe senz’altro far pensare che sia un futuro desiderabile, ma non se poi pensiamo alla distopia già vista in Wall-E. Proprio per salvarci da questo tipo di visione e per darci anche un punto di vista diverso, la DreamWorks ha sfornato un film che ribalta un po’ il punto di vista. Non si tratta più di un essere umano immerso nella tecnologia, ma del contrario, ovvero un robot immerso nella natura.

Lo scopo della macchina

Riadattando il libro di Peter Brown, il film “The wild robot” vuole dare un senso inverso a quello che noi percepiamo come progresso. Se il progresso è tutto ciò che la scienza e le nuove tecnologie ci danno, in realtà questo film di dice il contrario. Infatti, Roz è un robot che si riadatta e perde tutti gli scopi iniziali che gli erano stati assegnati. Programmato per eseguire delle task, alla fine si adatta alla natura, rieducato anche grazie all’incontro con determinati personaggi. Si immerge nella natura e scopre altri scopi da raggiungere. Per quanto impensabile per una macchina, il senso è proprio quello di umanizzare un po’ di più qualsiasi prodotto tecnologico. Chiaramente non è possibile realmente, ma è possibile creare nuove tecnologie tenendo a mente che siamo sempre esseri umani. Quindi, è fondamentale non accantonare il alto più umano per la mera creazione tecnologica, regolando con etica.

Esaltazione della macchina

A vedere le nuove tecnologie un po’ più romantiche sono stati anche alcuni poeti moderni. Tutta la corrente futurista, chiaramente, ha già avuto a che fare con l’esaltazione di tutto quello che è veloce, feroce, nuovo, andando persino ad esaltare la guerra. In questo, forse, manca proprio la parte di moderazione umana. Altri poeti, anche accostandosi a questa corrente, hanno composto poesie dedicate ad elementi tecnologici, esaltando la funzione, ma non sfociando in questi bias. Un esempio è “Automobile” di Govoni:

“È proprio bella l’automobile!
Mi dà un’ebbrezza nuova, inebriante.
Non è la gioia del cavallo in corsa
verso il traguardo. No!
È una potenza inconscia,
come se il motore fosse un cuore mio
che batte all’impazzata
col rumore assordante delle ruote”

Contro le macchine

Al contrario, ci sono autori che non hanno nascosto un certo timore nei confronti delle nuove tecnologie. In entrambi i casi si trattano di opere totalmente previdenti e che, nonostante con pensieri formulati nello scorso secolo, rimangono comunque ancora attuali. Uno dei poeti e scrittori più importanti del novecento americano, Charles Bukowski, ha scritto una breve poesia proprio in merito a questo tema. La sua visione era piuttosto pessimistica, ma non si allontana da quello che effettivamente sta succedendo oggi.

“Adesso ci sono computer e ancora più computer,
e presto tutti ne avranno uno,
i bambini di tre anni avranno i computer
e tutti sapranno tutto
di tutti gli altri
molto prima di incontrarli
e così non vorranno più incontrarli.
Nessuno vorrà incontrare più nessun
altro mai più
e saranno tutti
dei reclusi
come me adesso…”

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