Che cos’è la positività tossica? Quando pensare (troppo) positivo diventa giudizio e senso di colpa

La positività tossica è un tipo di “pensiero positivo” che assomiglia più a un ordine che a un consiglio, che obbliga piuttosto che ispirare, che fa sentire sbagliati invece che felici.

“Tutto andrà bene.” “Ogni evento ha qualcosa da insegnarti, reagisci!” “Sii positivo! Potrebbe essere peggio.”

La positività tossica è quindi l’eccessiva e inefficace generalizzazione di uno stato felice e ottimista in tutte le situazioni. Il processo di positività tossica si traduce nella negazione, minimizzazione e invalidazione dell’autentica esperienza emotiva umana.

Ma come distinguerla da un sano ottimismo?

Che cos’è la positività tossica

Se hai mai attraversato un momento difficile (una rottura, una perdita di lavoro), probabilmente hai sentito alcune delle frasi sopra citate fino alla nausea da amici e familiari.

Le persone che pronunciano quel tipo di frasi hanno senza dubbio buone intenzioni; stanno semplicemente cercando di mettere un filtro roseo sul momento difficile che stai attraversando. “C’è di meglio, resta ottimista”.

Ma proprio come qualsiasi cosa fatta in eccesso, quando la positività viene utilizzata per coprire o mettere a tacere l’esperienza umana, diventa tossica.

Negando l’esistenza di certi sentimenti, cadiamo in uno stato di negazione e di emozioni represse.

Quello che ci viene difficile accettare è la nostra imperfezione, e questo ci porta a invidiare chi somiglia di più allo stereotipo di perfetto. E chi meglio del personaggio famoso che ti vende la strategia del successo può rispecchiare meglio questo stereotipo?

Fingendo di vivere “vibrazioni positive tutto il giorno”, neghiamo la validità di una vera esperienza umana.

“La positività tossica è l’idea che dovremmo concentrarci solo sulle emozioni positive e sugli aspetti positivi della vita” afferma Heather Monroe, assistente sociale clinico e direttore dello sviluppo del programma presso il Newport Institute. “è la convinzione che se ignoriamo le emozioni difficili e anche le parti della nostra vita che non funzionano, saremo molto più felici“.

Il problema è che la positività tossica semplifica eccessivamente il cervello umano e il modo in cui elaboriamo le emozioni, e può effettivamente essere dannoso per la nostra salute mentale.

I tempi emotivi possono durare giorni, o addirittura anni. Personalmente mi è capitato di “risolvere” un senso di colpa vecchio di dieci anni proprio qualche notte fa, attraverso un meraviglioso sogno fatto dopo una bellissima chiacchierata con un’amica. Se ci sono voluti dieci anni significa che così doveva essere e forzare questo tempo avrebbe solo prolungato (o esacerbato) questa lieve ma profonda sofferenza.

“Ci possono essere effetti a lungo termine di positività tossica tra cui incoraggiare una persona a rimanere in silenzio sulle proprie lotte” spiega Monroe “Sentirsi connessi e ascoltati dagli altri è uno dei più potenti antidoti alla depressione e all’ansia, mentre l’isolamento alimenta questi problemi emotivi. Spesso, cercare di nascondere o negare i sentimenti può portare a un maggiore stress sul corpo e una maggiore difficoltà nell’evitare emozioni sconvolgenti “.

Ottimismo imperturbabile e chiudere la porta ai sentimenti negativi non li fa andare via; semmai, li esacerba.

A volte la vita può semplicemente fare schifo

La positività tossica è andata moltiplicandosi durante COVID-19. Pensate a tutti i tweet o alle storie comparse sui social durante la pandemia.

Quante volte avete letto o sentito frasi sul reagire positivamente al Covid? Il messaggio subliminale è stato (ed è) “se non rimani positivo su questa pandemia, sei nello spazio di testa sbagliato”

Dato il trauma collettivo che stiamo vivendo tutti con la pandemia a causa del corona-virus, la positività tossica è un concetto particolarmente rilevante in questo momento: tutti quei post su Instagram che dicono che dobbiamo appoggiarci a questa esperienza, abbracciare passare più tempo con la nostra famiglia, metterci in forma, prendere un nuovo hobby, imparare una nuova lingua e infine scrivere quel romanzo.

Uno dei più grandi esempi di positività tossica è nell’area della negazione della natura traumatica della pandemia“, dice Noel McDermott, psicoterapeuta a Londra “lo vedi quando le persone promuovono solo l’esperienza positiva del blocco in cui sono state in un viaggio di auto-sviluppo, imparando a vivere in pace con il loro mondo interiore.”

Purtroppo, molto troppo spesso il “pensiero positivo” si riduce a una mera eliminazione dei pensieri negativi e dei sentimenti negativi, senza elaborare la negatività e soprattutto senza comprenderne a fondo le ragioni.

Avete visto tutti Inside Out?

L’aspetto più educativo del film è sicuramente il ruolo di Tristezza, emozione che spesso cerchiamo di non sentire, di non ascoltare, di nascondere tra un lavoro e l’altro, di soffocare riempiendoci la vita di impegni o immergendoci in un videogioco o un Social network.

Ci sembra che la tristezza non debba esserci, riusciamo a tollerarla sempre meno e ne abbiamo paura. In realtà però, il benessere e l’equilibrio psicofisico può nascere solo dalla corretta interazione tra le emozioni, permettendoci di soffermarci su ognuna di esse, dandoci qualche volta anche l’occasione di stare in silenzio, spegnendo TV, smartphone e computer senza paura, ascoltando il suono delle nostre emozioni, accogliendo anche la tristezza.

Quello che invece mostra Gioia è proprio lo stereotipo culturale del successo: ogni evento va vissuto al massimo assicurandoci di prenderne sempre le parti belle e gli insegnamenti volti verso l’andare avanti (guai a fermarsi, gravissimo fare un passo indietro)

Il giudizio nascosto e l’insinuarsi del senso di colpa

Cos’è la positività tossica l’abbiamo capito, ma cosa succede quando commentiamo la sofferenza altrui con frasi come “devi vedere il lato positivo delle cose”?

Di fatto questo genere di affermazioni nasconde un giudizio bello e buono verso l’altra persona. Questo giudizio recita così:

“non hai fatto abbastanza” “non hai in mano la tua vita” e il peggiore di tutti “se stai male la colpa è solo tua”

Alla frase “dovresti vederla positivamente” la persona implicitamente percepisce tutto il vostro giudizio e si sente in colpa per non aver trovato le energie o la strada giusta per sviare quel problema o per superare quella determinata sofferenza.

Ci tengo a sottolineare che una persona depressa, per qualsiasi motivo, è qualcuno che porta con sé un peso di cui voi non conoscete quasi niente se non niente. Il paragone che possiamo attuare su noi stessi per capire cosa vive una persona depressa è quello del “prova ad alzarti dal letto e raggiungere la finestra con pietre e pesi legati ad ogni parte del tuo corpo”.

Vivere uno stato di depressione è normale e, a volte, addirittura funzionale.

Purtroppo oggi “essere positivi è diventata una nuova forma di correttezza morale” (Barbara Held, professoressa di psicologia al Bowdoin College) ma incolpare coloro che combattono lotte fuori dal proprio controllo, non è solo irrealistico ma è anche crudele.

Per questo motivo dobbiamo divincolarci dai meccanismi che ci portano a giudicare chi è felice come buonoe chi è triste come cattivo”. Altrimenti, quando saremo noi i “cattivi”, saremo i primi a non accettare la nostra situazione e a soffrire maggiormente per questo motivo.

Ovviamente, non c’è niente di male nell’essere ottimisti e nel cercare di stare fisicamente e psicologicamente meglio cambiando le proprie abitudini negative. Il problema nasce quando la positività diventa un’imposizione culturale e sociale.

La cosa tremenda è che poi di riflesso lo si fa anche con se stessi. Ogniqualvolta ci sia qualcosa di triste non ci permettiamo di vivere il dolore perché il dolore è dei deboli mentre i forti vivono positivamente e reagiscono velocemente, sempre e subito.

Vi pongo un esempio:

Charlie (nome inventato) ha vissuto tutta la vita seguendo il prestigio, con la passione di brillare, non solo attraverso il lavoro ma anche nel modo di presentarsi agli altri, come se possedesse un reparto intrapsichico di propaganda. Tremendamente positivo raggiunge numerosi risultati, scolastici e sportivi da giovane, lavorativi da adulto. Charlie coltiva di fatti il prestigio inteso come passione per il riconoscimento sociale cercando applausi da tutti e non solo da alcuni.

Secondo voi, quanto spontanea può essere una persona che vive così? (ricordatevi che sto esasperando un modello “malsano” di positività tossica)

Charlie è orientato verso buone prestazioni, praticità e successo, tutte caratteristiche idealizzate nella società moderna, ma pensate che soddisfare quella massiccia dose di vanità ogni giorno della vita per tutta la vita sia leggero o salutare?

Per questo tipo di persone un periodo di depressione potrebbe paradossalmente essere la migliore cosa che gli possa capitare (potrebbe! non è), permettendogli, per esempio, di assaporare il sangue delle ferite che positivamente ha fatto finta di non vedere o sentire, potendo porre attenzione verso aspetti della vita che magari non sono più sotto la sua attenzione.

Pensate che tutta quella passione compulsiva verso il successo abbia origine da qualcosa di bello? Solitamente sono compensazioni a mancanze infantili che sarebbe molto sciocco non considerare e non affrontare una volta divenuti adulti e in grado di prendersene cura.

La depressione non è il male e il lato positivo delle cose non è sempre il bene.

Questo non significa che si debba vivere depressi e non si debba reagire mai. Questo significa che come sempre il giusto equilibrio è il più grande termometro del benessere.

Ci tengo a sottolineare che questo articolo non vuole essere critica per un sano ottimismo o vuole giudicare persone che vivono felicemente la propria positività, ma piuttosto vuole rendere evidente come un modello di positività tossica possa sembrarci corretto quando in realtà può nascondere molte problematiche apparentemente sottovalutate.

 

 

1 commento su “Che cos’è la positività tossica? Quando pensare (troppo) positivo diventa giudizio e senso di colpa”

  1. ll dolore è dolore e non si vuole assolutamente provare e non perché siamo deboli! Si deve avere

    una mente operativa cercando di risolvere i problemi esistenziali ma quando profondamente

    percepiano che sono irrisolvibili o comunque difficili da chiarire con l’impiego di un grande lasso

    di tempo, è meglio abbandonare anzi rimuovere questi “nodi di sofferenza”. A che serve risolvere un

    problema a 90 anni e il giorno dopo morire? La vita dell’uomo è troppo breve per permettersi

    lungaggini di sofferenza che peraltro incontriamo ad ogni “piè sospinto”. Insomma cerchiamo il meno

    possibile di avere pensieri automatici negativi ed inutili per ottenere un barlume di serenità (la

    felicità è una utopia dell’esistenza umana).

    Dario Moriontini

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