Bembo a luci rosse: il lato nascosto del padre della lingua italiana

Talvolta, dietro i grandi intellettuali del passato, si celano tratti curiosi ed inaspettati. Anche Pietro Bembo, conosciuto come il vincitore della questione della lingua nel ‘500, nasconde fra le sue opere ammiccanti componimenti a sfondo sessuale. 

Il frontespizio di un’edizione a stampa settecentesca delle “Prose della volgar lingua”
(Ibs)

La letteratura non si ferma a quello che si può leggere  a scuola. Gli scrittori di tutti i tempi hanno lasciato spazio, di fianco alle opere che tutti ricordano, anche a componimenti dai toni piccanti. Potrebbe stupire, però, che uno degli esponenti di questa tendenza sia proprio Pietro Bembo, importantissimo intellettuale che l’immaginario collettivo ricorda con una lunga barba bianca ed un’imponente talare rossa. Egli, prima di essere ordinato e diventare cardinale, compose anche dei Motti ammiccanti e provocatori.

Pietro Bembo: un cardinale destinato a sconvolgere l’italiano

Figlio di una famiglia patrizia veneziana, Bembo nasce a Venezia nel 1470. Terminati gli studi in greco a Messina ed in filosofia a Padova e Ferrara, per un certo periodo seguì il padre, ambasciatore, per le corti italiane, conoscendone la sfaccettature mondane, culturali e letterarie. In questo periodo ha inizio anche la sua produzione letteraria. Nel 1513 venne nominato da papa Leone X segretario ai brevi. Il servizio offerto al pontefice e la rinuncia allo stato laicale gli permisero di dedicarsi interamente all’attività di umanista. Ritornato in Veneto dopo qualche anno, nel 1525 pubblicò a Venezia le Prose della volgar lingua, che riscossero grande successo tra gli intellettuali. Le tesi che Bembo esprime in quest’opera si riveleranno capaci di sconfiggere le altre all’interno della cosiddetta questione della lingua, il dibattito culturale che, nel Cinquecento, si proponeva di dare una lingua letteraria comune all’Italia, che politicamente era tutt’altro che unita. Nonostante tutta la sua produzione letteraria fosse laica, nel 1538 fu nominato cardinale. Trascorse gli ultimi anni a Roma, dove morì nel 1547.

Pietro Bembo in un ritratto di Tiziano, 1539 (Arena)

Il contributo di Bembo nella cultura italiana…

Il tratto più noto di questo personaggio è sicuramente quello che ha più influito nell’evoluzione della letteratura italiana: la formulazione della tesi che risulterà vincitrice della questione della lingua. Bembo, infatti, sviluppa una proposta classicista e arcaizzante: come i latini scelsero come modelli Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia, così il volgare doveva fare riferimento a Boccaccio per la prosa e Petrarca per la poesia, ponendo lo sguardo quindi a un toscano già diverso da quello che era parlato a Firenze in quell’epoca, ma che godeva di grande autorevolezza. La lingua di Dante, invece, non era considerata un modello tanto affidabile quanto le altre, poiché si serve di parole “rozze e disonorate“, come lui stesso afferma nel secondo libro delle Prose. Il successo immediato di questa teoria è testimoniato anche dal fatto che, nel 1532, Lodovico Ariosto decise di ripubblicare il suo Orlando Furioso, già pubblicato nel 1516 e nel 1521, con sostanziali correzioni linguistiche apportate al fine di rispondere ai nuovi canoni imposti da Bembo nel 1525.

… ed alcuni scritti inaspettati

Un articolo del grande storico della lingua Giuseppe Patota, comparso pochi giorni fa sul sito di Treccani (per l’articolo cliccate qui), ci rivela un lato di Bembo che (forse) molti non si aspetterebbero. Intorno al 1507 Bembo scrisse (seppur non concedendone la diffusione in forma stampata) una serie di Motti: una raccolta di 165 distici di endecasillabi a rima baciata composti durante un soggiorno presso la corte di Urbino, che pur conservando un grande numero di riferimenti ad opere latine, greche e volgari precedenti, e quindi dimostrando la conoscenza enciclopedica dell’autore, si sviluppano in chiave ironico-grottesca, talvolta anche oscena. Ecco gli otto distici che chiudono la raccolta, emblematici per comprendere il livello di oscenità e il tono scherzoso ed ammiccante che caratterizza tutta l’opera:

Non fo sonetti, et non mel reco a scorno,             297

ma sestine fo io quasi ogni giorno.

 

Se brami che già mai ti sia concesso                       299

senza rivale amar, ama te stesso.

 

Che cosa è quel che sempre vive in fasce,                         301

et se non getta il pasto non si pasce?

 

Et quel che tanto calca et si dimena,                                    303

et spande il sangue et non taglia la vena?

 

Et quel Signor, ch’ha duoi cagniuoli appresso          305

et mai non entran nel giardin con esso?

 

Ancor mi dite, ove si trova un speco,                       307

nel qual non entra mai se non un cieco?

 

Et dove è quella valle, ch’ogni mese                        309

veste a fior rossi assai del suo paese?

 

Et dove in una valle allaga un fonte,             311

di cui non beve chi non fora il monte?

I primi due distici, utilizzando la metafora dei sonetti e delle sestine, sono stati interpretati come un riferimento all’autoerotismo: secondo Patota, infatti, le sestine rappresenterebbero proprio la mano che stringe il pene, e proprio a questo si riferirebbe l’esortazione “ama te stesso” nel distico successivo. I sei distici successivi, invece, sono costruiti come indovinelli, i primi tre dei quali hanno come risposta “il sesso maschile”, gli altri “il sesso femminile”.

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