Batteri e petrolio: come i microbi possono riparare ai nostri disastri

Kern, California, 1910. Un malfunzionamento di una trivella porta ad una fuoriuscita di petrolio che andrà avanti per 18 mesi: è l’inizio dei disastri petroliferi nella storia dell’uomo.

Impianto di trivellazione nel deserto (fonte: pixabay)

Il nostro pianeta offre una miriade di risorse: carbone, petrolio, geotermia, energia eolica e solare, e via discorrendo. Alcune di queste sono innocue per l’ambiente in cui viviamo, altre invece vanno sfruttate con parsimonia e cautela.

Come e perché avvengono i disastri petroliferi

L’estrazione del petrolio è una pratica diffusa in ogni continente: dai giacimenti subacquei a quelli terrestri l’ingegneria si è evoluta per riuscire a raggiungere l’oro nero in ogni angolo del mondo. Dalla seconda rivoluzione industriale l’umanità si è sempre più resa conto dei rischi legati al progresso. Le nuove scoperte in campo chimico ed energetico hanno portato ad una “corsa alla tecnologia”, che si è rivelata pericolosa quanto le corse agli armamenti. Tragicamente famoso in questo senso l’incidente di Černobyl’, che in nome della ricerca provocò danni paragonabili a quelli di un ordigno atomico. Il nucleare non è però l’unica risorsa il cui utilizzo può arrecare seri danni agli ecosistemi. Il petrolio è ad oggi la risorsa più utilizzata a livello planetario per la produzione di energia: la sua reperibilità, il suo potere calorifico e la sua versatilità nel produrre carburanti e plastiche, è ben nota da decenni. La sua raffinazione ed estrazione hanno però anche dei lati negativi, primo fra tutti la sua pericolosità per l’ambiente. Ma da dove arriva l’oro nero? In poche parole è il risultato di ciò che accade a resti animali e vegetali dopo una manciata di milioni di anni a temperatura e pressione molto alte. Prendiamo ad esempio un dinosauro (quelle grosse lucertole che vissero fino a 69 milioni di anni fa): dopo essere morto la sua carcassa viene portata via dalla marea, o sepolta da una tempesta, o sprofonda a causa di un terremoto. La terra e l’acqua sopra di lui si muovono e lo spingono più a fondo, mentre si decompone e si trasforma. Alla fine del processo tutto ciò che componeva la materia vivente è divenuto un mix di idrocarburi (molecole composte da carbonio e idrogeno) che si è deciso chiamare petrolio. Sono presenti anche azoto, ossigeno e altri elementi in quantità molto molto piccole. Il fatto stesso che per qualche litro di petrolio ci siano volute tonnellate di dinosauri, ci dovrebbe far riflettere sulla preziosità di questa risorsa. In poche parole noi abbiamo imparato a trivellare nei posti in cui riteniamo sia più probabile ci siano dei giacimenti, vale a dire grandi agglomerati di materia vivente compressa e trasformata, per portare il greggio in superficie e lavorarlo. Questo processo comporta, in qualche malaugurato caso, degli incidenti disastrosi. Immaginate una piattaforma costruita nel Golfo del Messico, lunga e larga oltre 100 metri, che a seguito di un’esplosione comincia a rilasciare migliaia di litri di petrolio nell’oceano per oltre quattro mesi. Questo è ciò che accadde nel 2010 alla Deepwater Horizon, e passò alla storia come uno dei più pesanti disastri petroliferi di sempre. La causa principale di questi avvenimenti è il danneggiamento delle apparecchiature: impianti come quelli petroliferi, nonostante le loro dimensioni non indifferenti, sono in certo modo delicati, in particolare durante i processi di estrazione. Ironia della sorte una delle qualità più importanti del petrolio, l’infiammabilità, è proprio il motivo più comune degli incidenti.

Immagine artistica rappresentante una delle prime stazioni di rifornimento negli stati uniti (fonte: pixabay)

Cosa significa “recalcitrante”?

Si definiscono recalcitranti i composti non di origine naturale. Sono chiamati anche “xenobiotici” (dal greco “estraneo alla vita”) e sono inesistenti in natura, oltre che tossici. Esempi di recalcitranti si trovano tra gli scarti dell’industria farmaceutica, cosmetica, tessile, elettronica, ma fanno anche parte di questa categoria i residui bellici, in particolare esplosivi, e molti metalli. Per quanto riguarda il petrolio è d’obbligo differenziare tra parte alifatica e parte aromatica. Alifatica e aromatica non sono altro che due parole che danno indicazione sulla forma delle molecole all’interno del petrolio. Se parlo di alifatica mi sto immaginando una catena lineare di atomi di carbonio circondato da idrogeni. Quando dico invece aromatica parlo di composti molto particolari, comuni anche nelle vernici, di forma ciclica e altamente tossici. Il nome lo si deve al loro odore, pungente e caratteristico. Tra le due componenti del petrolio quella alifatica si è rivelata più semplice da smaltire, mentre per quella aromatica la questione è purtroppo ben più complicata. In poche parole tutto ciò che è recalcitrante non fa bene all’ambiente e tantomeno a noi. Inutile dire che i primi a risentire della presenza di questi composti sono gli animali e le piante. Solo qualche mese fa abbiamo tristemente assistito all’annientamento dell’ecosistema delle Mauritius causato dalla rottura di una petroliera poco a largo dell’arcipelago. Oltre al danno fisico causato dallo schianto dell’enorme nave, le perdite maggiori sono state portate dalla chiazza di petrolio galleggiante che ha coperto il meraviglioso oceano tropicale. Migliaia di uccelli, pesci, alghe e coralli sono morti soffocati dalla tossicità dei carburanti e del carico della nave. Considerati questi fattori è però innegabile che molti dei recalcitranti siano prodotti indispensabili e estremamente versatili: trovare un valido sostituto del petrolio non è facile, così come non è facile trovare dei materiali con proprietà al pari di quelle della plastica. Non è di certo una novità che l’uomo provochi danni al pianeta in nome del progresso, ma è anche doveroso ricordare come il problema stia nell’abuso e nello smaltimento di queste risorse, e quasi mai nella risorsa in sé. In altre parole non è di certo la plastica a dover essere colpevolizzata, ma l’uso che l’uomo ne fa.

Un’esemplare di tartaruga marina, tra le specie più colpite dalla diffusione di inquinanti (fonte: pixabay)

Ingegneria biotecnologica e risanamento

“La vita troverà un modo” dice una frase di un celeberrimo film. Può sembrare strano ma anche dopo disastri come quelli causati dalla rottura di una petroliera, la natura riesce a sorprenderci. Nonostante la maggior parte degli esseri viventi non riescano ad usare gli idrocarburi, come quelli di cui è composto il petrolio, come nutrimento, alcune specie di batteri si sono evolute ed adattate per poter sfruttare persino queste sostanze. Da quando siamo piccoli abbiamo sentito parlare di come gli uomini respirino ossigeno ed espirino anidride carbonica, e di come invece le piante facciano il contrario. Questa frase è un enorme esemplificazione di quello che succede nel nostro organismo: noi trasformiamo gli zuccheri e l’ossigeno in energia, scartando poi la CO2, mentre i vegetali usano i nostri scarti e l’energia solare per ricavarne nutrimento ed espellere O2. Ma cosa centra tutto questo con i microbi? Come dicevamo poco fa, i microbi hanno imparato a “smontare” le molecole di cui è formato il petrolio, per poi usarle proprio come noi usiamo gli zuccheri. Ecco quindi che possono aiutarci a degradare la plastica e pulire piccole aree inquinate dalle dispersioni di combustibili fossili. Non è questo però l’unico modo in cui aiutano l’ambiente. Sempre tra quei composti recalcitranti, ne esistono alcuni in grado di infiltrarsi nella catena alimentare fino ad arrivare all’uomo e causare danni. Esempio famoso quello del mercurio, metallo pesante che dai pesci può finire sulle nostre tavole. Ebbene qui i batteri compiono una doppia azione: partendo dai solfati, composti altrettanto nocivi, trasformano (riducono, se vogliamo essere precisi) queste molecole fino a solfuri, che una volta rilasciati si legano a metalli come il mercurio. Alla fine del processo le molecole dannose precipitano, e diviene molto più improbabile la loro ingestione da parte degli animali, quindi per estensione, anche da parte nostra. Con l’avanzare dell’ingegneria biotecnologica, abbiamo imparato ad allearci con i microbi, utilizzandoli su scala industriale per risanare falde acquifere, laghi e altro ancora. In altri contesti addirittura funghi e piante si sono rivelati dei preziosi alleati. Degno di nota è il caso di alcuni basidiomiceti, funghi appunto, in grado di assumere e rendere innocue le famose diossine, che si ottengono dalla combustione di alcune plastiche. Tra le piante si annoverano invece finocchio, riso ed erba medica. Purtroppo però anche questi funghi e batteri hanno una soglia di sopportazione. Oltre certi quantitativi di tossicità dell’acqua o dell’aria questi organismi non sono più in grado di sostenere i processi di risanamento e non c’è modo, se non con il diretto intervento dell’uomo, di diminuire la presenza di recalcitranti. Queste forme di vita dovrebbero essere un monito per tutti riguardo l’importanza di mantenere il pianeta più pulito e sano possibile, o verrà un giorno in cui anche noi dovremo fare i conti con la nostra soglia di sopportazione, e non sarà per nulla piacevole.

Impianto eolico, una delle alternative più valide ai combustibili fossili (fonte: pexels)

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