“Incapace di percepire la tua forma, ti trovo tutto intorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, umilia il mio cuore, perché tu sei ovunque”.
Si chiude con queste parole “La forma dell’acqua”, ultimo capolavoro firmato dal regista messicano Guillermo del Toro e vincitore non solo del Leone d’oro al miglior film alla 74esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ma anche di ben quattro Oscar su un totale di tredici candidature ricevute. A porre un punto alle oltre due ore di pellicola è una frase che potrebbe significare tutto e niente contemporaneamente, un po’ sulla scia della narrazione iniziale con cui essa si apre: l’incipit del film racconta infatti di principesse mute, regni fatati che in realtà sono piccoli borghi vicini alla costa, e poi ancora mostri che sono uomini e “prìncipi” con le branchie. Letteralmente una storia d’amore sotto la superficie dell’acqua e per questo motivo surreale agli occhi dei telespettatori che se da un lato osservano trasognati le vicende di Eliza, Giles e della “creatura”, dall’altro – nel disperato tentativo di dare un’etichetta alla surreale love story del film – potrebbero quasi parlare di “amore liquido”. Questo stesso termine – grande schermo a parte – non è sconosciuto nemmeno alla psicologia, tanto che lo stesso Zygmunt Bauman, uno dei più influenti sociologi del secondo Novecento, lo utilizzò per delineare una nuova forma di “amore moderno”, diametralmente opposto rispetto a quello della pellicola di del Toro, ma che paradossalmente ne condivide alcune sfumature salienti.
L’amore al tempo dell’usa e getta
Nella società liquida teorizzata da Bauman la moneta di scambio quotidiana è un prodotto merceologico che “nasce già obsoleto” e che, sommandosi ad una “cultura dell’usa e getta” costantemente di corsa, priva di unicità le relazioni affettive. Sempre secondo il sociologo, l’abitudine a valutare il rischio in maniera razionale piuttosto che istintiva e la consapevolezza di non volere (e in una certa misura, non potere) restare incatenati a qualcosa di immobile mentre il mondo procede con la sua evoluzione, è quello che più caratterizza il cosiddetto “amore liquido”: un amore 2.0, in cui fragilità, carenza di fiducia e disillusione fungono da colonne portanti.
Che l’amore fosse “un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto e imperscrutabile”, però non serviva che venisse Bauman a dircelo: tutti noi siamo a conoscenza di quanto i nostri sentimenti possano rivelarsi delle fondamenta di fragile cartone quando noi le reputavamo di inscalfibile marmo, eppure la visione di amore liquido del sociologo sembra essere ancora più disincantata.
A sancire la fine del “vissero felici e contenti” secondo Bauman sarebbe infatti la profonda radice consumistica della nostra società, la quale avrebbe ridotto al minimo il concetto di insostituibilità: in un mondo in cui la novità ha a disposizione solo poche settimane (se non addirittura giorni) prima di diventare obsoleta, anche i rapporti umani tendono così alla forsennata ricerca del nuovo, del diverso, dell’originale seguendo la logica secondo cui “sono i beni a creare i bisogni e non i bisogni a creare i beni”.
A personificare questa profonda solitudine – la cui faccia opposta della medaglia è invece la tensione verso una nuovo lieto fine – è ad esempio Giles: attempato vicino di casa della protagonista Eliza, dichiaratamente omosessuale e con una dipendenza da torte al lime che però finisce sempre per abbandonare non ancora finite in frigo. Non a caso il regista – il quale ha personalmente affermato di aver optato per il colore verde per simboleggiare il futuro – ha scelto la medesima tinta per quelle fette di torta addentate e poi chiuse in frigorifero: dato il rimando di questo colore al futuro e l’estrema rigidezza al cambiamento di Giles, il fatto che egli “assaggi” un boccone di futuro per poi essere incapace di farlo totalmente proprio potrebbe infatti essere metafora del suo desiderio di cambiamento frenato dall’incapacità di recidere il legame con il passato.
L’attrazione nei confronti di ciò che è estraneo, intrigante ed affascinante è in un certo senso anche quella mostrata dalla stessa Eliza, che in un primo momento viene attratta dalla misteriosa creatura squamata solo per il semplice fatto che essa è totalmente diversa da tutto ciò che la donna conosce: il tutto in perfetta linea con quella “insostenibile leggerezza dell’homo oeconomicus” citata dal poeta francese Milan Kundera, la quale spinge l’individuo a ripudiare regole, norme etiche e addirittura la propria sicurezza personale pur di soddisfare i propri desideri. “Tendiamo a non tollerare la routine, perché fin dall’infanzia siamo stati abituati a rincorrere oggetti usa e getta, da rimpiazzare velocemente” afferma Bauman. “Non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto dello sforzo e di un lavoro scrupoloso”.
Eppure nel caso della protagonista de “La forma dell’Acqua”, quella che inizialmente sembrava essere nata come mera curiosità si trasforma ben presto in un bisogno affettivo, sessuale ma soprattutto empatico che riduce le innumerevoli scelte ad una soltanto: lui è come lei ed Eliza si sente in dovere di proteggerlo. Il tema della scelta è stato un altro dei punti salienti toccati dall’amore liquido di Bauman, secondo il quale l’infinita molteplicità di alternative possibili con cui veniamo bombardati quotidianamente provoca in noi una profonda oppressione invece che una leggera libertà di scelta. Questo quindi, immersi come siamo nel mondo digitale e social, ci porta sempre a fare un passo indietro prima di ancorarci in un luogo stabile e a domandarci: e se ci fosse qualcosa di meglio?
Meglio il silenzio o l’eccessiva comunicazione?
“La prossimità virtuale riduce la pressione che la vicinanza non virtuale ha l’abitudine di esercitare” è stato il commento di Bauman circa l’era del click. “Gli utenti dei siti di appuntamenti online possono frequentarsi in tutta sicurezza, certi del fatto che possono sempre tornare sul mercato per un altro giro di shopping sentimentale. Non vi è nessun obbligo di acquisto. Così la possibilità di rescissione immediata è il maggiore vantaggio che i siti di appuntamenti su Internet possano offrire”.
Il mondo di Eliza e del suo “principe anfibio” invece si presenta totalmente agli antipodi: non tanto per l’epoca premoderna in cui è ambientato, ma piuttosto per il ruolo marginale che – a differenza di quanto accade nella società attuale – la comunicazione verbale riveste all’interno della relazione amorosa.
Secondo Bauman, il fallimento di una relazione risiede nell’assenza di comunicazione, eppure la modernità ci insegna che spesso le rotture si verificano a causa di un eccesso di quest’ultima, che da “semplice” mezzo di interazione si trasforma in un flusso continuo di parole, immagini, desideri di conferme e tentativi di controllo, tanto che alla fine accade che “non siamo solo noi ad essere perennemente in vetrina, ma è il mondo stesso ad essere costantemente visualizzabile”.
Bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno?
L’amore liquido dei due improbabili protagonisti della pellicola al contrario si compone di sguardi, gesti e tutta una gamma di “non detti” che al loro interno nascondono intere dichiarazioni d’amore. Anche lo stesso linguaggio dei gesti utilizzato da Eliza assume così le sembianze di un “codice segreto tra amanti”, che se da un lato la mette ancor di più in sintonia con la creatura, dall’altro suscita la frustrazione di chi ne è escluso. Tra questi l’antagonista per eccellenza del film, Strickland, il quale si rivela in costante oscillazione tra un senso di rabbiosa impotenza nei confronti del mutismo di Eliza e quell’incapacità di accontentarsi che Bauman istituirà come ennesimo punto cardine del suo amore liquido: è proprio dalle ceneri di quest’ultima che prende vita una fenice malata e carica di demoralizzazione, sconforto e infelicità, il cui ciclo di vita si esaurirà con un nuovo forsennato inseguimento di una felicità fittizia che la consumerà fino a farla ritornare cenere.
Il risultato di questo circolo vizioso, secondo Bauman, diventa quindi il vero problema della post-modernità: quello “della disumanizzazione, della morale frivola e leggera, dei legami fragili, labili, non durevoli, come i beni acquistabili sul libero mercato”. Una visione sicuramente distante dall’amore romantico a cui siamo abituati e che per moltissimi aspetti si rivela totalmente antitetico a quello puro, viscerale e anticonvenzionale raccontato dal film di Guillermo del Toro, ma che condivide con quest’ultimo sicuramente una delle peculiarità più significative: la profonda instabilità della relazione, l’indefinitezza del futuro e la consapevolezza che – all’interno di questa frenetica modernità – l’accettazione del rischio sia la scelta meno rischiosa. Sebbene l’amore, così come l’acqua, assuma mille forme diverse e nessuna allo stesso tempo, restando indomabile anche quando racchiuso in un bicchiere.
Francesca Amato
P.S. Per coloro che sentono l’impellente bisogno di trovare risposta a quella che forse è la domanda più profonda ed esistenziale sollevata dal film: ebbene sì, John Harvey Kellogg credeva che la masturbazione fosse qualcosa di nocivo per la mente ed il fisico (arrivando addirittura a sostenere che praticarla provocava sintomi come acne, palpitazioni, epilessia, problemi di postura scorretta ed infermità). Per impedire che la piaga del fai-da-te si diffondesse decise quindi di ricorrere all’unica cosa che le persone amano quasi quanto il sesso: il cibo. Onde evitare che ci si cibasse di carne o alimenti saporiti – a detta di Kellogg, complici nell’aumentare il desiderio sessuale – egli propose sul mercato dei cibi poveri, ricchi di fibre e capaci di purificare il corpo: così nacquero i famosi cereali Kellogg’s.