La “Questione irlandese” vista con gli occhi di Joyce, Yeats e degli U2

Un difficile passaggio della storia dell’Irlanda raccontato da alcuni dei più rappresentativi artisti di questo paese

Il quartetto che compone lo storico gruppo musicale degli U2

La cosiddetta Questione irlandese ha radici molto profonde, alimentate da un sentimento di indipendenza innato nella maggioranza (ma non la totalità) degli abitanti dell’Irlanda. Sin dal XIX secolo, molti tentativi di scrollarsi di dosso l’egida della corona britannica sono stati messi in atto, ma in questo articolo affronteremo principalmente gli avvenimenti del secolo scorso, cioè quelli che hanno portato a notevoli scontri, anche brutali, che hanno segnato l’iter culturale di grandi artisti irlandesi del Novecento.

immagine della “Rivolta di Pasqua” di Dublino del 1916 (fonte storiain.net)

Il “Lunedì di Pasqua”

Dopo molte lotte, istituzionali e non, tra inglesi e irlandesi, nel settembre del 1914 il parlamento britannico approvò la cosiddetta Home Rule, una legge che riconosceva grandi autonomie all’Irlanda, fatto salvo il diritto dell’Ulster (che per gran parte diventerà poi l’Irlanda del Nord) di rimanere parte integrante del Regno Unito. Un passo decisivo, la cui entrata in vigore venne rinviata però alla fine della Prima Guerra Mondiale appena scoppiata. Ad alcuni irlandesi questo andava bene, ma molti altri videro nel conflitto mondiale un’occasione da sfruttare per attuare una pesante rivolta contro gli inglesi massicciamente impegnati a livello militare. In questo modo, con un’operazione di guerriglia, l’Irlanda sarebbe stata indipendente in tutto e per tutto. E così, il 24 aprile 1916, passato alla storia come il Lunedì di Pasqua, un corpo dell’organizzazione paramilitare dei Volontari Irlandesi (supportato dalla Germania) si impossessò di alcuni edifici pubblici di Dublino e proclamò la nascita della Repubblica d’Irlanda. Questa esperienza durò poco e, nel giro di una settimana, le truppe inviate dal governo britannico ripresero il controllo della città con un grande numero di vittime per entrambe le fazioni. La rivolta però ebbe un effetto implicito: ravvivò fortemente il sentimento nazionalista negli irlandesi che, nelle elezioni del 1918 votarono il partito nazionalista Sinn Fein, collegato ai gruppi paramilitari, che predicava l’indipendenza totale dal parlamento di Londra. Il Sinn Fein stravinse le elezioni ai danni del partito parlamentare, favorevole invece alla Home Rule. Fatto sta che i nuovi deputati “Feniani” si opposero al loro dovere di presenziare quali rappresentanti dell’Irlanda al parlamento di Westminster e diedero vita all’Assemblea nazionale irlandese, che a sua volta proclamò l’indipendenza della Nazione. Ne nacquero scontri armati tra le forze speciali antiguerriglia inviate dagli Inglesi e i militanti dell’Ira (Irish Republican Army), come si faceva chiamare l’organizzazione paramilitare della neonata Repubblica. Gli scontri furono logoranti e durarono fino al 1921, quando rappresentanti irlandesi e del governo britannico giunsero ad un accordo: gli inglesi avrebbero riconosciuto all’Irlanda una larga autonomia, ma questa sarebbe dovuta rimanere nello status di Dominion, cioè di entità statale del Regno Unito, col quale avrebbe dovuto intrattenere rapporti privilegiati per politica estera, commerciale e bellica. Di fatto i “Feniani” avevano stipulato un accordo simile alla Home Rule, tradendo i proclami coi quali avevano vinto le elezioni tre anni prima. Avvenne dunque una spaccatura nello schieramento dei nazionalisti irlandesi e, anche in questo caso, le conseguenze furono piuttosto sanguinose: nel 1922 scoppiò una guerra civile che si concluse, con molte vittime, l’anno dopo, ma che lasciò strascichi pesanti anche negli anni a venire.

Il poeta irlandese William Butler Yeats (1865-1939)

Quale indipendenza?

Quegli anni di fermento coinvolsero anche intellettuali irlandesi del calibro di James Joyce e William B. Yeats. La cosa curiosa è che entrambi, al momento dello scoppio della rivolta del 24 aprile 1916, si trovavano fuori dall’Irlanda, l’uno in una sorta di esilio volontario dal 1906 che lo ha portato a risiedere anche a Trieste, l’altro invece temporaneamente in Francia. D’altro canto, tutti e due dissero la loro riguardo a una profonda ferita che si era aperta inesorabilmente nella loro terra e tra la popolazione. Partendo da Yeats, si può dire che tra i due egli fosse il nazionalista più convinto e aderì alla causa indipendentista con grande trasporto. Egli propugnava un’indipendenza politica coadiuvata da una rinascita culturale irlandese che si potesse liberare dell’oppressione della cultura inglese e anche della Chiesa Cattolica: egli infatti, nato da una famiglia della classe media di Dublino, si fece coinvolgere dal padre in una mentalità  antireligiosa e il suo momentaneo allontanamento dalla Irish Republican Brotherhood fu dovuto proprio alla preponderanza del ruolo della Chiesa nel sentimento nazionalista, che il clero locale appoggiò in virtù della diversità di ortodossia tra loro e gli anglicani che governavano politicamente il loro territorio. In seguito al Lunedì di Pasqua, però, il suo nazionalismo rinacque con vigore e, trasportato dalla passione, scrisse una famosissima poesia intitolata, naturalmente, Easter 1916. In essa egli utilizzò più volte la fortunata espressione “A terrible beauty is born“, con la quale seppe parlare, in un luogo solo, della rivolta armata e anche delle sue conseguenze future. Era nata una bellezza terribile: la parola bellezza fa riferimento all’ orgoglio nazionale che aveva portato individui sconosciuti della piccola o media borghesia a diventare eroi della Nazione, la quale finalmente avrebbe potuto avere una sua identità libera; terribile perché il prezzo, pagato con il sangue, fu molto caro e per giunta non si limitò, come già detto, a quell’episodio, ma continuò per anni a venire a far pesare il suo tributo. E a pagare tutto furono praticamente solo gli Irlandesi. Per questo Yeats, dopo quel lunedì, abbandonò la IRB, ma il suo attaccamento alla patria lo portò a diventare membro del Parlamento nel 1922. Joyce, invece, guardava la rivoluzione con maggiore distacco, non solo quello meramente fisico (già abbiamo detto che si era allontanato dall’Irlanda anni prima) ma anche quello intellettuale. Bisogna specificare, in partenza, che anche Joyce credeva che fosse necessario liberarsi dall’oppressore inglese, ma non era molto d’accordo con le modalità di lotta indipendentista che veniva attuata dai suoi connazionali. Con la sua visione dall’esterno si era accorto che la società irlandese era “paralizzata”, in pratica immersa in una sorta di naturale schiavitù che le impediva di divincolarsi dalle sue catene. Secoli di oppressione culturale avevano reso sterile e retrograda la cultura dell’Irlanda e dei suoi abitanti, che erano ancora prigionieri dei loro schemi mentali imposti dall’alto. Come Yeats, pensava che fosse necessaria un’imponente rivoluzione culturale, ma, a differenza del suo connazionale, riteneva che essa fosse più urgente di quella politica. E la rivoluzione culturale passava anche per la strada della liberazione dall’egida della Chiesa Cattolica che aveva invecchiato e paralizzato la mentalità degli irlandesi. Per questo, ad esempio, gli espliciti riferimenti sessuali che appositamente egli aveva inserito nei suoi Dubliners resero molto difficoltosa la pubblicazione dell’opera: il vero nemico da combattere era prima di tutto nell’anima degli irlandesi. Da lì andava scacciato il nemico interno, cioè una mentalità anacronistica irremovibile dalle teste dei conterranei dello scrittore. Il suo impegno intellettuale e artistico era diretto anche a rendere liberi i suoi connazionali dalla loro prigionia, spesso scontrandosi con gli stessi che, a suo modo, intendeva salvare.

busto in onore di James Joyce, nato in Irlanda: rappresenta uno dei più grandi scrittori del Novecento

Sunday Bloody Sunday

Recentemente gli U2 hanno pubblicato un nuovo singolo intitolato Ahimsa, che rappresenta l’ennesimo inno alla pace dello storico gruppo, ma una delle loro canzoni più iconiche è Sunday Bloody Sunday, che si basa su fatti realmente accaduti e comunica il dolore che un ragazzo e tutti gli irlandesi come lui hanno provato. Facciamo un passo indietro agli anni Sessanta del secolo scorso: nell’Ulster, l’area nord-orientale dell’Irlanda per la maggiore sotto giurisdizione britannica (solo tre contee su nove di questa regione fanno parte della Repubblica d’Irlanda), la comunità protestante locale non vedeva di buon occhio la minoranza cattolica che viveva in mezzo a loro, considerata un corpo estraneo e potenzialmente minaccioso per il Regno Unito. Così che essi si dotarono di organizzazioni paramilitari (Ulster Volunteer Force) che perseguitarono molti cattolici nel corso degli anni, costringendo questi ultimi a istituire un comitato di difesa; allo stesso tempo, anche il parlamento inglese si sentì in dovere di inviare delle sue truppe per monitorare la situazione. La capitale Belfast divenne una sorta di teatro di guerriglia, ma la situazione degenerò il 30 gennaio 1972, quando, nella città di Derry, i soldati dell’esercito britannico spararono su una folla pacifica di manifestanti cattolici uccidendone quattordici e causando molti feriti. Quella, nota come la Bloody Sunday, era l’ennesima piaga che il popolo irlandese era costretto a soffrire e le reazioni dei cattolici non si fecero attendere. All’epoca dei fatti Bono, il cantante e frontman degli U2, aveva solo undici anni e la canzone che rievoca dolorosamente i traumi del sanguinoso evento è stata scritta solo dieci anni dopo, con tutta la tristezza e l’amarezza di una persona che non riesce a spiegarsi il perché di tanta violenza, che ha ancora impresse nella mente le immagini che aveva visto da bambino. La canzone è stata dedicata “A tutti gli Irlandesi“, perché, nonostante le divisioni che laceravano l’isola da decenni, nessuno era escluso dai tormenti e dalle devastazioni di quella guerra interna. E non fu un caso che la prima volta che questa canzone venne suonata in pubblico gli U2 avessero deciso di farlo proprio a Belfast, nel dicembre 1982. Quella canzone non difendeva la minoranza cattolica nordirlandese ma voleva di più: quella canzone ripudiava la guerra fratricida che macchiava tutta l’Irlanda, ripudiava l’odio e le divisioni nelle quali i quattro esponenti del gruppo rock erano cresciuti fin da bambini, con l’orrore negli occhi. Auspicare alla fine di una guerra che, anche negli anni a venire, sembrò impossibile da placare era il messaggio forte e chiaro che riecheggiava e riecheggia ancora nelle note e nelle parole di uno degli inni alla pace più belli del panorama musicale mondiale.

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