Cosa caratterizza l’esistenza? Se secondo Cartesio la risposta è nella rete neuronale del nostro cervello, per l’etica africana dell’ ubuntu invece risiede nella rete sociale della nostra vita, fatta di un’intricata linea del tempo costellata di persone che già ci hanno condizionato e di molte altre ancora che sono destinate a farlo.
L’interrogativo circa l’esistenza – così come anche la mutevolezza, la fragilità e allo stesso tempo la componente conservatrice che la caratterizzano – mantiene da sempre la sua posizione nella top 10 delle domande (per l’appunto) esistenziali. Quando ormai filosofi e studiosi sembravano avere più dubbi che certezze circa la questione, il colpo di genio venne ad un rivoluzionario matematico del ‘600, noto al grande pubblico per aver preso tutto quello scervellarsi ed averlo trasformato nella plateale prova dell’esistenza umana racchiusa in tre parole, scandite dal suo inconfondibile accento francese: cogito ergo sum.
Dopo oltre quattro secoli il “penso, dunque esisto” (condizione, ad onore del vero, necessaria ma non sufficiente per molti esseri umani) ha così rappresentato la stabile trave per le acrobazie psicologiche e filosofiche degli intellettuali successivi, creando una visione dell’uomo individualistica e totalmente compiuta, seppur forse eccessivamente isolata dal resto dei 7 miliardi di “pensatori” che convivono con lui sulla Terra.
In particolare, a rifiutare (o perlomeno perfezionare) questa visione egocentrica dell’esistenza umana è stato il continente africano sub-sahariano, troppo attaccato ad una viscerale comunione di culture, usanze e vissuti per poter “ridurre” l’umanità ad un insieme di arcipelaghi mentali.
Fu così che, in misura diametralmente opposta, nacque l’ubuntu: una visione olistica del mondo che considera uomini e donne all’interno di una fitta ed inestricabile rete di legami sotterranei e mutuamente dipendenti, il cui rafforzamento – o al contrario, la cui recisione – determina l’esistenza di ogni persona passata, presente o futura.
Nessuno è uno, tutti siamo centomila
Tale filosofia apparve per la prima volta nero su bianco solo nella prima metà del XIX secolo, proseguendo nella sua trasmissione scritta e orale fino ai giorni nostri e modificando – di pari passo con l’evoluzione dell’uomo – la sua flessibilità fino a trasformarsi in una sorta di “umanesimo africano”. Con l’avvento degli anni Novanta e il tanto atteso ribaltamento della clessidra dei Duemila, anche per i promotori della filosofia dell’ubuntu giunse così il momento di dar del filo da torcere alla massima cartesiana del Cogito, sostituta ora dal proverbio zulu “umuntu ngumuntu ngabantu”: letteralmente, “ogni persona è una persona attraverso altre persone“.
Al semplice “umuntu” (uomo) occidentale e pensatore di Descartes ecco quindi che venne a sostituirsi la ramificata “ubuntu” (umanità), intesa come profonda rete di interconnessioni e dipendenza reciproca tra ogni persona, la cui esistenza si ritrova inevitabilmente influenzata non tanto dal proprio riflesso speculare quanto da tutte le persone che contribuiscono a sorreggere lo “specchio”.
L’ubuntu e la circolarità del tempo
Sempre secondo questa “etica della vita” africana, il vincolo esistenziale che intercorre tra ogni persona si snoda non solo in orizzontale – sbriciolando le barriere di età, orientamento religioso, etnia o aspirazioni future – ma anche in verticale, abbracciando nel medesimo respiro collettivo anche svariate generazioni di antenati, le cui impronte passate condizioneranno inevitabilmente i passi dei propri eredi. É proprio su questa scia di pensiero – che vede l’esistenza individuale non come una proprietà personale ma come un dono condiviso – che si radica quindi anche un preciso obbligo morale: di comprensione, di consapevolezza, di empatia, di rispetto ma soprattutto di tutela e protezione perché se “io sono, poiché noi siamo” allora “io devo essere, affinché voi siate“.
Dalla psicologia al cinema: l’intramontabile fascino del filo rosso
Seppur in chiave meno filosofica, queste teorie sono state spesso riprese dalla recente psicologia sociale dei gruppi: a far loro da portavoce sono stati per esempio Kurt Lewin, il quale descrisse i gruppi come una “gestalt dinamica le cui proprietà strutturali globali risultano diverse da quelle delle singole parti sommate”, o ancora il britannico Henri Tajfel, che nel suo pensiero vedeva la natura sociopsicologica delle civiltà anteposta a quella storico-politica. Analogamente, anche il grande schermo non è riuscito a scampare all’attrazione suggestiva dell’etica africana, espressa forse con un pizzico di fantascienza nella connessione spirituale tra uomini e natura-madre decantata in “Avatar”, giungendo infine alla pellicola “Cloud Atlas” che più di tutte racchiude l’atemporalità dell’esistenza umana e l’interdipendenza del tutto personificate dall’ubuntu, e perfettamente espresse in una delle citazioni più emblematiche e riassuntive di tutto il film: “la nostra vita non è nostra. Da grembo a tomba siamo legati ad altri, passati e presenti, e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro”.