Il film di Roland Joffé e la monumentale “Istoria della Compagnia di Gesù” fanno luce sulle gesta dei Gesuiti in tutto il mondo. Ecco l’impronta che hanno lasciato i seguaci di Sant’Ignazio nella storia.
Tra gli europei che, a partire dal XV secolo, incominciarono a viaggiare in tutti i mari e le terre del mondo, non ci furono solo avventurieri o conquistadores. Non soltanto marinai o militari misero piede nelle terre sconosciute del Sud America o dell’estremo Oriente. Tra questi individui del Vecchio Continente vanno anche compresi i padri Gesuiti, ordine fondato nel 1534 da Sant’Ignazio di Loyola e che giocò un’importanza fondamentale nei rapporti con le popolazioni di nuova scoperta europea. A volte cooperarono con i nuovi colonizzatori, più spesso si schierarono dalla parte degli indigeni. Ma la certezza è soltanto una: dovunque siano arrivati, i Gesuiti hanno lasciato comunque un’impronta indelebile che il film “The mission” e la summa opera di Daniello Bartoli aiutano a comprendere. Un’opera, quest’ultima, troppo poco considerata rispetto al suo valore artistico e che in questa sede cercheremo di ricordare per quello che merita.
Una breve, lunga “Istoria”
Tra i classici della letteratura italiana c’è un piccolo spazio riservato ad un religioso, un gesuita, di nome Daniello Bartoli. Costui è stato l’autore dell’opera italiana più estesa mai scritta: la cosiddetta “Istoria della Compagnia di Gesù“, lunga oltre diecimila pagine. Diecimila pagine che, però, non annoiano mai per via di una prosa considerata da molti pregevolissima. Al punto che Giacomo Leopardi definì Bartoli il “Dante della prosa italiana“.
E pensare che all’inizio Daniello Bartoli non voleva nemmeno fare il professore di lettere. Ispirato e meravigliato dalle azioni del gesuita Francesco Saverio e degli altri missionari nelle Indie, avrebbe voluto partire per intraprendere anche lui quella strada. Ma i suoi superiori intuirono le sue doti letterarie e culturali e lo obbligarono a rimanere in Italia a predicare e ad insegnare. Da buon gesuita obbedì senza battere ciglio e col senno di poi forse è andata bene così.
Perché grazie ai suoi studi ha potuto redigere questa breve ma lunga storia che ci ha consegnato una testimonianza capitale delle missioni gesuitiche. Breve perché copre appena il primo secolo di storia della Compagnia, ovvero dall’anno 1540 al 1640. Bartoli era nato a Ferrara nel 1608 e sarebbe morto nel 1685, dopo aver lavorato per quasi tutta la vita a questa sua fatica letteraria. Lunga invece per le dimensioni mastodontiche dei volumi, che ha riempito di minuziose descrizioni di ogni particolare, ogni parola e ogni gesto rilevante della storia del suo ordine.
Infatti l’opera inizia con la “Vita di Sant’Ignazio“, la biografia del fondatore dei Gesuiti che è tutt’ora considerata tra le più affidabili mai scritte. Poi però prende campo la parte più corposa dell’opera, che è allo stesso tempo la più esotica, quasi la più fantasiosa: la descrizione delle missioni gesuitiche in Asia.
Una prima sezione terminata nel 1653 e dedicata alle missioni in “Asia” (intendendo l’India e aree geografiche vicine), è seguita da quella del “Giappone” (1660) e poi dalla “Cina” (1663). In esse si raccontano le vere e proprie avventure dei Gesuiti partiti per evangelizzare questi luoghi e venuti in contatto con mondi completamente diversi da quello dell’Europa del XVI secolo. Nuove usanze, abiti mai visti ed edifici particolari si manifestavano ai loro occhi e questi sacerdoti europei non mancavano di annotare tutto in lettere, diari, memoriali.
Documenti di cui Bartoli entrò in possesso e che consultò attentamente prima di riportare nella sua Istoria ciò che non aveva potuto sperimentare direttamente sul campo. E probabilmente, leggendo questi racconti così affascinanti, si appassionò talmente tanto che nacque in lui il desiderio di partire di cui parlavamo prima. Desiderio negato che però ha avuto un suo sfogo attraverso la scrittura, che è talmente apprezzabile da riuscire a descrivere in maniera piacevole e fantasiosa luoghi lontani e pieni di mistero, terreno fertile per l’evangelizzazione e per nuove scoperte.

Pro e contro delle Missioni
Quelle che Bartoli riporta sono fedeli testimonianze che la sua grande capacità di scrittore è riuscito ad abbellire quasi come fossero romanzi o racconti di fantasia. Insomma, quell’indole da missionario e la passione per le avventure che ha dovuto soffocare per ordini superiori ha avuto uno sfogo sulla carta. Ed è forse la passione a rendere questi racconti esotici così ammalianti. Al punto di essere stati creduti frutto esclusivamente delle fantasie di Bartoli, per nulla inerente al vero.
Poi però è stato dimostrato da recenti studi che ciò che il letterato gesuita ha scritto deriva da quei già citati affidabili documenti che aveva ricevuto. Una serie di testimonianze che raccontano i fatti e gli eventi che hanno coinvolto i missionari della Compagnia di Gesù presso popolazioni nuove o poco conosciute che avevano il compito e la ferma volontà di evangelizzare.
I Gesuiti soggiornarono presso sovrani o nobili, intrattenendo con loro persino conversazioni auliche nel tentativo di convincerli a convertirsi. E’ più facile che un popolo diventi cristiano se lo diventa il suo re. Oppure andavano in mezzo alla gente povera a predicare la parola di Cristo, trovando a volte terreno fertile, altre volte la morte. Molti furono gli indigeni che riuscirono a convertire, ma molti furono anche i Gesuiti che morirono in missione. Infatti alcuni non erano ben visti in territori dove era radicata un’ altra confessione religiosa. Oppure, dopo aver raccolto un buon numero di seguaci, diventavano scomodi per le autorità locali. Per non parlare della paura che fossero emissari, quasi delle avanguardie, dei temibili dominatori occidentali.
E in effetti all’inizio i Gesuiti erano partiti anche con missioni politiche, incarichi di ambasciatori dei monarchi europei. Ma anche l’evangelizzazione era di per sé un tentativo di portare a popolazioni vergini la cultura e la religione europea. Per i missionari questo era parte integrante di ciò a cui erano chiamati in quanto religiosi, ma per i potenti europei il loro operato poteva già essere un modo per soggiogare coloro che avrebbero voluto dominare. I Gesuiti avrebbero dovuto, nel disegno di alcuni, preparare il terreno per l’arrivo dei dominatori.
Anche per questo molti missionari persero la vita, incontrando resistenza e paura in chi cercavano di convertire. Ed è pur vero che, comunque, hanno cercato di far attecchire in terre lontane e mentalmente diverse il seme del Cristianesimo, in una sorta di lieve imposizione della cultura occidentale che avrebbe potuto compromettere quelle autoctone. Così come non è (più) un segreto che gli stessi Gesuiti acquistarono schiavi africani da far lavorare nelle loro piantagioni, appellandosi ad un passo della Bibbia che li avrebbe autorizzati. Non si è mai tutti buoni o tutti cattivi.
Ma i loro memoriali raccontano anche la loro ammirazione per tutte le novità in cui si sono imbattuti: appresero facilmente lingue e costumi dei luoghi che visitavano, crearono dei dizionari e, fondamentalmente, si preoccupavano del bene delle anime di chi cercavano di convertire. Il resto era collaterale, raramente legato ai veri interessi dei missionari “sul campo”, ma più di quelli di palazzo.
Purtroppo l’opera monumentale di Bartoli è incompiuta. L’autore, resosi conto della lunghezza della sua Istoria e sentendo il peso degli anni aumentare, non riuscì a descrivere tutte le missioni gesuitiche “ai quattro angoli del mondo”. E’ rimasto fuori il Sud America, dove i Gesuiti hanno avuto un ruolo altrettanto fondamentale. Ma qui è venuto in nostro in aiuto, tre secoli dopo, il regista Roland Joffé.
L’altra faccia dell’Occidente europeo
Il film “The Mission“, vincitore della palma d’oro a Cannes nel 1986, ci porta al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay, sulle cascate dell’Iguazù. Qui in alto, nella foresta pluviale, si sono rifugiati i Guaranì, tribù di indigeni che cercano così di scampare alle continue razzie dei trafficanti di schiavi. Siamo nel XVIII secolo e ormai Spagnoli e Portoghesi sono stabilmente insediati nel Sud America e vanno continuamente alla ricerca di schiavi, rapendo o uccidendo (grazie alla superiorità delle armi e dell’equipaggiamento) centinaia di Guaranì.
In soccorso di queste popolazioni, che vivono allo stato primitivo immerse nella natura, arrivano i Gesuiti. Alcuni hanno già provato a raggiungere le popolazioni sopra le cascate, ma sono stati uccisi e gettati nel fiume fino poi a precipitare giù. A riprova delle difficoltà iniziali che avevano i membri della Compagnia di Gesù nel loro processo di evangelizzazione. Poi un giorno arriva Padre Gabriel (Jeremy Irons) che, con il suono del suo oboe, riesce a fare colpo sui Guaranì e a diventare uno di loro.
I Guaranì capiscono in fretta che lui non è un occidentale come gli altri. E’ diverso dai trafficanti di schiavi, il cui rappresentante è, all’inizio del film, Rodrigo Mendoza (Robert De Niro), uomo tanto spietato e affarista quanto vittima di un’ anima tormentata. Padre Gabriel e Mendoza sono le due facce della colonizzazione europea del Sud America, due modi diversi di rapportarsi alle popolazioni native delle foreste pluviali.
E infatti, a differenza di chi cercava di catturarli per poi venderli o sfruttarli, i Gesuiti con Padre Gabriel iniziano a creare le cosiddette Riducciones, veri e propri villaggi costruiti da e per i Guaranì. In questi luoghi i missionari predicano certamente la fede cristiana, ma forniscono un’istruzione agli indigeni, insegnano loro a coltivare, a fabbricare e suonare gli strumenti musicali. Ma soprattutto, li aiutano a sfuggire dalle persecuzioni degli altri europei, quelli interessati alla loro pelle.
Così facendo vanno a ledere fortemente gli introiti economici e politici di Spagnoli e Portoghesi, finché non si arriva ad un’azione di forza che metterà in pericolo le missioni gesuitiche sopra le cascate. Dopo il Trattato di Madrid del 1750 (a livello storico, in realtà, lo sceneggiatore si è preso qualche piccola licenza) l’opera dei Gesuiti in queste zone viene gravemente danneggiata. Anzi, di lì a poco, nel 1773, la Compagnia gesuitica sarà persino soppressa da papa Clemente XIV dopo una lunga trafila di espulsioni dei seguaci di Sant’Ignazio dai più potenti stati d’Europa. A riprova di quanto i Gesuiti come Padre Gabriel arrivarono a dare fastidio con la loro fede intransigente, con la disciplina militaresca, con la loro grande cultura e la loro opera che non si arrestava davanti a nulla.