Seneca, filosofo latino di età neroniana, ha lasciato nelle sue “Lettere morali a Lucilio” un tesoro di consigli, precetti e riflessioni da cui noi, anche nel 2021, possiamo ancora trarre ispirazione.
È la filosofia stoica a permeare la sua speculazione, dottrina volta al raggiungimento della saggezza, unica virtù in grado di garantire una vita felice. Il saggio conosce e quindi è padrone della sua vita, basta a sé stesso ed è in grado di non lasciarsi turbare da nulla. La vera forza risiede nell’animo che deve essere curato costantemente, controllato e diretto verso le cose più nobili. Le “Epistulae ad Lucilium” sono un sunto di tutti i problemi filosofici presenti nei numerosi ulteriori trattati da lui scritti.
1. “Vindica te tibi”: sfruttare bene il tempo a propria disposizione
Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva.
Fai così, o mio Lucilio: renditi padrone di te stesso e il tempo che finora ti era portato via con la forza o sottratto con la frode o che ti sfuggiva di mano raccoglilo e conservalo.
Questo è l’incipit della prima epistola della raccolta di lettere morali che Seneca invia all’amico Lucilio. Qui l’autore delinea uno dei moniti cardine della sua meditazione filosofica: non sprecare il tempo che ci viene concesso. Infatti il primo periodo altro non è che una raccolta di imperativi fra qui spicca il verbo “vindica”. Quest’ultimo deriva dal linguaggio giuridico e significa propriamente il rivendicare una proprietà. In questo caso assume quindi il valore fortissimo di rivendicare se stessi come proprio possesso contro gli impegni e le preoccupazioni esterne che tendono a disgregare l’io. L’invito rivolto a Lucilio è quindi quello di non perdere di vista ciò che veramente conta nel flusso temporale che tutto travolge, ovvero la cura della propria interiorità. Se non si presta attenzione, è infatti molto facile lasciarsi sfuggire, secondo dopo secondo, l’intera esistenza. Seneca ribadisce che gran parte della nostra vita la perdiamo perché non seguiamo i giusti comportamenti, altra parte quando non facciamo niente e l’intera parabola mortale mentre siamo occupati in cose che non ci riguardano direttamente. Così il filosofo di Cordova ci ricorda che il tempo è l’unica cosa che controlliamo e ci esorta a “tenere strette tutte le nostre ore“.
2. La necessità e il dovere di condividere la saggezza
Per Seneca la via della saggezza non si percorre in solitudine ma sempre con un buon compagno. È un iter che richiede il continuo miglioramento di sé. Lucilio è allievo che riceve insegnamenti ma è allo stesso tempo un aiuto fondamentale per l’autore che non si ritiene un sapiens arrivato, ma un uomo in perenne cammino. Nell’epistola 6, infatti, il filosofo parla dell’amicizia come di un sodalizio rivolto ad un bene superiore e per questo è necessario che gli amici condividano i propri progressi e le proprie trasformazioni. Egli ammette ad un certo punto:
Se la saggezza mi venisse data alla condizione esclusiva di tenerla racchiusa in me e di non poterla esprimere, la rifiuterei: senza un compagno, nessun bene è un possesso piacevole.
Nell’ottica di questa propensione verso il reciproco scambio, Seneca si premura di inviare all’amico i libri da cui ha tratto giovamento, con tanto di sottolineature per permettergli di trovare immediatamente i punti chiave. La gioia più grande della conoscenza sta nel trasmetterla, fondando così rapporti di amicizia dal valore immenso e non basati sulla convenienza del momento.
3. Come affrontare il dolore con fermezza d’animo
Nella lettera 63 il lutto di Lucilio per la morte dell’amico Flacco costituisce il punto di partenza di un più ampio discorso sul tema del dolore per la morte di un caro. Anche in questa circostanza funesta è doveroso mantenere un certo contegno, senza eccedere. Visto che non è possibile non piangere e non soffrire, bisogna farlo con misura. Sembra un’imposizione crudele e meschina ma Seneca ci svela l’ipocrisia che spesso si nasconde dietro le violente manifestazioni del patire.
Mediante le lacrime cerchiamo di dimostrare il nostro rimpianto e non assecondiamo il dolore, ma lo ostentiamo. Nessuno è afflitto per proprio conto. Oh, che balorda follia! Persino nel dolore c’è una nota di ambizione.
L’autore afferma infatti che se ci lasciamo andare al dolore non conserveremo il ricordo dei nostri cari, ma, al contrario, li dimenticheremo in fretta, poiché alla mente non piace pensare a ciò che provoca angoscia. Egli aggiunge che dobbiamo essere grati di averli avuti vicini e di tenere in conto che la vita non è infinita. Si deve quindi godere al massimo degli amici quando ciò è possibile e non trascurarli per poi affliggersi alla loro dipartita, seguendo il timore che si dubiti del proprio sentimento di amicizia. La raccomandazione finale è ad abbandonare il dolore prima di essere stanchi di provare dolore e, morto un affetto, cercare subito un’altra persona da amare.
Nulla viene più presto in odio del dolore, che, quando è recente, trova un consolatore e ne attira alcuni altri; quando, invece, è inveterato, si presta al ridicolo, ed è giusto che sia così: infatti o è finto o è una vera sciocchezza.
(traduzioni dal latino di Fernando Solinas)