Perché il macabro ci affascina così tanto? Ce lo spiega Elisa True Crime

Il true crime, ormai, non è più solo una moda: è uno stile di vita. E chi meglio di Elisa De Marco può farci capire perché lo amiamo tanto?Siamo tutti colpevoli di almeno un pellegrinaggio verso una qualsivoglia fonte di true crime. Che sia il documentario su Ted Bundy su Netflix, Ho vissuto con un killer beccato per caso in una feroce sessione di zapping televisivo, un podcast su Spotify o un video su YouTube: è impossibile esserne esonerati. E scommetto che molti, pur chiedendosi, anche un po’ inquietati:”Ma che cosa sto guardando (o ascoltando)?!”, si sono fatti travolgere in pieno dall’energia narrativa del true crime. Perché funziona proprio così: da un iniziale momento di sfiducia e di ribrezzo, ci si ritrova catturati davanti allo schermo, con il fiato sospeso.

Il caso di Elisa True Crime

Per tutte le persone che parlano italiano e che sono appassionate di true crime, Elisa De Marco è semplicemente una divinità. La content creator torinese è stata una delle primissime figure a far sbarcare questo genere di intrattenimento tipicamente americano sulle nostre piattaforme. Da allora, è stata un’escalation di popolarità. Elisa, nei suoi video (e, da qualche mese, nel suo podcast) tratta di diversi casi legati al true crime: omicidi, sparizioni, rapimenti, truffe e chi più ne ha, più ne metta. Argomenti spesso molto pesanti sono trattati da Elisa con grande professionalità e arte oratoria, tanto da conquistarsi facilmente (e meritatamente) il titolo di storyteller. E qui la domanda sorge spontanea. Come mai, in questo mondo così pieno di negatività, andiamo a cercare anche nel nostro tempo libero delle storie nefaste?

Lo spettacolo della sofferenza

Facciamo un tuffo nella sociologia della devianza per iniziare a capire perché ci piace tanto il true crime. Spierenburg, un sociologo del secolo scorso, scrive The spectacle of suffering, un testo guida per materie come criminologia e affini. In questo, egli descrive come la comminazione di una pena (lui si riferisce a quella giuridica, noi diamo una lettura più vasta) coincida con lo sprigionarsi della sofferenza. Fino all’800, la pena era considerata spettacolo, strumento per la coesione dei molti intorno a un valore, a un simbolo. Dal XIX secolo in poi, però, si è andati incontro a un progressivo mutamento delle sensibilità, che ha portato gli uomini a empatizzare gradualmente sempre di più con colui che soffre e, conseguentemente, a voler rifuggire tale vista. Come dirà Elias, altro fondamentale sociologo, si assiste a un processo di privatizzazione degli eventi perturbanti, dato da un lato dalla sensibilità dei singoli, dall’altro da un sistema culturale in evoluzione. Questo fino a metà ‘900, però.

Paura, empatia e compassion fatigue

Dal metà del secolo scorso, infatti, notiamo dei cambiamenti importanti. Siamo tutti più interessati alla sfera del macabro, per certi versi (seppure rifuggiamo come la peste l’idea della nostra mortalità, per esempio) e questo si può spiegare parzialmente con il superpotere dei mass media, che ci sbattono in faccia, anche in maniera molto poco rispettosa, terribili eventi di cronaca nera. Siamo così stressati da questi contenuti che, ormai, non ci fanno né caldo né freddo. Siamo abituati alle brutte notizie, tanto che le digeriamo senza elaborarle, portando alla cosiddetta compassion fatigue, ossia fatica di essere compassionevoli. E questa conduce a un logorio emotivo, morale e intellettuale, secondo cui prendiamo le distanze psicologiche dagli eventi negativi per autodifesa. Quindi, guardare true crime ci affascina di natura, ma non ci condiziona poi troppo. Vogliamo tutti essere scossi da un brivido, provare timore, o un’emozione forte come la paura, ma alla fine quella rimane lì. Riusciamo a connetterci con la vittima, tendenzialmente, ma non fino in fondo. Perché, certo, tutti pensiamo:”Poverino/a“, ma spesso, in silenzio, esclamiamo anche:”Fortuna che non è successo a me!“. Il caro vecchio concetto di Schadenfreude, l’essere sollevati dalle disgrazie altrui, come si vede, è esattamente mutuabile da quello di compassion fatigue.

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