Fino al 1985 l’Albania aveva vissuto sotto il regime del politico stalinista Enver Hoxha che aveva applicato al paese una politica ai limiti del totalitarismo. La costituzione albanese non riconosceva ai propri cittadini diritti quali quello di aggregazione sociale, di protesta o di qualsiasi altro mezzo di emancipazione civile. I confini così come anche le ambasciate estere erano chiusi, territori off limits. La produzione era in mano allo stato ed ogni cittadino, alienato dalla condizione di individuo, era portato ad ignorare la presenza di un sistema migliore nel quale vivere. Dopo la sua morte Hoxha fu succeduto da Ramiz Alia che si dovette interfacciare con una delle più grandi crisi del tempo. L’ordinamento mono partitico comunista e isolazionista che aveva condotto il paese fino ad allora aveva lasciato in eredità ad Alia una profonda situazione di povertà e stallo economico che stava portando la società stessa a sprofondare in una grave crisi non solo economica ma anche sociale.

La prima mossa di Alia fu così quella di “allentare il guinzaglio” e di eliminare restrizioni come quelle sulle riunioni sociali e sull’emigrazione. I reati punibili con la pena di morte diventarono sempre meno e le ambasciate furono riaperte. Dal punto di vista economico fu concessa più libertà al singolo produttore che seppur vincolato poteva avere rapporti commerciali con la vicina Jugoslavia ed un organizzazione del proprio lavoro più autonoma. In realtà questa tendenza liberale del nuovo primo ministro fu semplicemente accolta dal popolo come una buona occasione per emigrare. In un primo momento furono occupate tutte le ambasciate estere che si trovarono invase da richieste di asilo politico, dopo di ché furono prese d’assalto tutte le categorie di imbarcazioni di fortuna e non, che fossero in grado di attraversare il mediterraneo verso quello che era considerato l’approdo dell’occidente, l’Italia. Già all’inizio del 1990 minuti gruppi di albanesi raggiungevano le coste della puglia a bordo di zattere o piccole scialuppe. Il numero di arrivi salì in modo sempre più esponenziale fino ad arrivare al suo culmine, con l’arrivo di pescherecci e navi da carico piene di migranti. In tutto, quel giorno ne sbarcarono 27000 decretando lo stato di emergenza umanitaria per quello che venne chiamato “esodo biblico”. L’Italia, impreparata per una situazione simile, fu costretta a convertire centri sociali, parrocchie e centri di aggregazione in centri di accoglienza. All’epoca con il governo di Tirana fu concordata una linea d’azione nei confronti dei profughi che stabiliva la cessione di un permesso di soggiorno della durata di un anno nell’arco del quale dovevano trovare sistemazione e lavoro dimostrando allo stato italiano di non essere un peso. Nei periodi successivi molti albanesi furono rimpatriati e a tanti altri invece fu concesso di rimanere nei confini dello stato. Secondo l’ISTAT nel 2017 (26 anni dopo l’esodo) la popolazione albanese in Italia ammontava a 440.465 abitanti dei quali il 52,3% (dato in crescita) risultava occupato solo nel 2016. Oggi l’Albania è una Repubblica Parlamentare con un’economia in crescita che sta vivendo il lento ritorno di coloro che 26 anni fa decisero di salpare per le coste pugliesi.

La storia migratoria albanese oggi risulta essere importante per comprendere l’origine delle azioni della sua politica nei confronti di quella italiana, in particolar modo nel contesto del caso Diciotti. Una settimana fa la nave della guardia costiera italiana carica di 137 profughi eritrei ha attraccato nel porto di Catania vedendosi tutta via impedita dalle istituzioni nello sbarco di persone versanti in ogni tipo di condizione fisica e psicologica. Per cinque giorni i riflettori della stampa nazionale ed internazionale sono stati puntati su questa vicenda che ha visto il ministro degli interni italiano come protagonista e come causa di una così lenta e straziante (per i migranti non per il ministro) attesa di accoglienza. L’epilogo di una vicenda di cui tanto ancora si sentirà parlare è arrivato grazie alla disponibilità di CEI (Consiglio Episcopale Italiano),Irlanda ed Albania di accoglierne le vittime. In particolar modo, la nazione “shqipetare” ha risposto alla necessità di accoglienza attraverso il ministro degli affari esteri Ditmir Bushati che con un tweet si è offerto di venire in aiuto di un paese che più di 26 anni fa ha accolto la sua popolazione in un momento di grande crisi.
Il fatto che Bushati abbia espresso comprensione nei confronti della condizione dei profughi eritrei ricordandone la vicinanza del popolo albanese mostra un tipo di umanità che oggi di rado viene ricercata nella figura politica e della quale ci siamo forse dimenticati troppo presto. Ci ricorda di quanto sia importante essere coscienti del proprio passato, dell’importanza di non dimenticarlo e di quanto sia fondamentale in un mondo che alza muri fornire a dei migranti, clandestini, profughi, nomadi il titolo di esseri umani e porre fine all’utilizzo che la politica ne fa come pedine dando loro una possibilità di costruirsi e di costruirci.
Andrea Trifoglio