Quel complesso e magmatico ingranaggio che siamo soliti chiamare vita mette spesso l’essere umano di fronte a prove ardue, una su tutte la solitudine e quel dramma esistenziale che spesso ne deriva.
C’è chi prova a scacciarla pensando di poter trovare nell’altro, chiunque esso sia, una realizzazione del proprio status di individuo, chi ne ha paura, chi non l’ha ancora mai vissuta, ma anche chi la ricerca come estrema ancora di salvataggio contro una realtà esterna nella quale non riesce più ad identificarsi e ad immergersi. Ma può davvero la solitudine rappresentare un benefico appiglio?
Quando l’imperturbabile eroe epico diventa tragico: Sofocle ci insegna la solitudine
Gran parte dei valori e delle tematiche che appassionano l’uomo moderno e che quest’ultimo ha ricavato da quella florida epoca che siamo soliti indicare con il termine di Romanticismo devono la loro esistenza e la loro messa in discussione ad una città e ad un periodo di poco più di un secolo, da noi tanto lontano ma allo stesso tempo paradossalmente prossimo: l’Atene del V secolo a.C. Infatti, è proprio in questo quadro storico che vide per la prima volta la luce un fenomeno di massa che avrebbe avuto un peso devastante non solo sulle forme d’arte delle epoche successive, ma anche sulla politica, sulla mentalità, insomma sull’intero modo di vivere dell’uomo all’interno di una realtà sociale. Sto naturalmente parlando delle rappresentazioni teatrali grazie alle quali si distinse la polis ateniese richiamando gente da ogni parte della Grecia, una novità che segnò non solo una città, ma un’epoca intera e che continua a far breccia nell’animo dell’uomo contemporaneo. Nel trattare il tema delle peculiarità che caratterizzano l’eroe tragico e che distinguono quest’ultimo dai protagonisti dell’epica, genere letterario che fino ad allora aveva rappresentato l’unico bacino d’attenzione per l’uomo greco, non si può prescindere dal compiere un breve excursus sulle origini del fenomeno tragico in relazione con gli altri generi praticati nell’Ellade, argomento così denso e articolato che di certo non ho la pretesa di esaurire in uno spazio così esiguo, ma del quale cercherò di fornire almeno i dati salienti. Trattandosi di un qualcosa di molto lontano nel tempo, non possiamo far altro che avanzare congetture e l’unico modo per provare ad ottenere qualche risultato concreto è servendoci delle fonti che abbiamo a disposizione, in primis di Aristotele, che affrontò la nascita della tragedia greca in uno dei suoi scritti più celebri, la Poetica, ma anche dell’opera di Erodoto, storico al quale dobbiamo gran parte della nostra conoscenza del mondo antico. Sulla base di tali fonti, nel corso degli studi critici, si è imposta una visione fortemente astratta e incompatibile con la realtà storica, a cui è stato dato il nome di “gloriosa triade”, basata su una sostanziale tripartizione diacronica dei generi poetici nel mondo greco. Tale triade vedrebbe una nascita della letteratura con il genere epico, in cui il poeta scompare dietro la fredda oggettività delle azioni compiute dai suoi personaggi statuari, sempre sicuri e imperturbabili nelle loro azioni; proseguirebbe poi con la lirica, una completa inversione dei canoni epici per l’immissione della soggettività, dell’io poetico fino ad allora sconosciuto al mondo greco, per poi culminare nel genere tragico, una sorta di hegeliana sintesi tra le due forme poetiche precedenti: il poeta tragico usa gli stessi personaggi dell’epica ma con caratteristiche condizionate dalla lirica, le quali lo rendono più instabile e sottoposto a colpe e ripensamenti. Una tripartizione così precisa e schematica non può di certo avere le pretese di rappresentare la realtà dei fatti circa l’evoluzione dell’ars poetica in Grecia, dove le forme letterarie cui ho accento convivevano fortemente tra loro contemporaneamente. Epica, lirica, tragedia sono generi coevi, certamente con tratti peculiari che li rendono facilmente distinguibili e dotati di autonomia, ma tali differenze non sono dovute ad un’evoluzione diacronica di un genere nell’altro, bensì alla coesistenza di forme e gusti di diversi di fare arte. Ecco che, chi voleva ascoltare le gesta dei grandi eroi catapultati in un mondo mitico, poteva affidarsi alle dolci parole dell’aedo che recitava un canto dell’Iliade, mentre chi preferiva ammirare le vicende di uomini in carne ed ossa, meno statuari e più “umani”, non doveva far altro che incamminarsi alle prime luci dell’alba verso l’Acropoli di Atene, lì dove faceva bella mostra di sé il teatro di Dioniso, in cui a partire dal 534 a.C. in poi personalità del calibro di Eschilo, Sofocle, Euripide fecero parlare per la prima volta l’essere umano.
Sofocle e la solitudine dell’eroe tragico
Il tragediografo che più di ogni altro riuscì nell’intento di rappresentare un mondo in cui l’uomo per la prima volta non fosse soggetto alle mere leggi della τύχη (destino) è stato senz’altro l’ateniese Sofocle. La critica, infatti, è sostanzialmente concorde nell’affermare che l’eroe di Sofocle è il primo personaggio moderno nella storia del teatro. Ma da cosa è garantita tale modernità? Se ci immergiamo nella lettura di una tragedia di Eschilo e la confrontiamo con un dramma sofocleo, la differenza macroscopico che emerge prepotentemente è il forte spessore psicologico dell’eroe sofocleo il quale è capace di evolversi, di riflettere su se stesso, di cambiare idea in relazione ai fatti e ai personaggi che gli ruotano attorno. Di conseguenza, se da una parte un Edipo o un Filottete grandeggiano sulla scena con tutto il loro fare eroico, dall’altro al momento della scelta e dell’azione i medesimi “eroi” rivelano tutte le loro debolezze e fragilità, sottoposti quali sono a continui ripensamenti e dubbi esistenziali. E come fare in modo che la psiche dei personaggi possa venire a galla? Niente di più facile che sottoporre uno statuario eroe a forze esterne, a situazioni dolorose e insostenibili che ne squarciano l’animo rivelandone così la vera fragile essenza. Ecco che l’eroe di Sofocle diventa un uomo solo, circondato da figure che non fanno altro che acuire il suo senso di straniamento dal mondo per la loro incapacità di comprendere il male al quale l’eroe è sottoposto. Tutti gli eroi sofoclei sono soli, ma colui che maggiormente impersonifica l’essenza dell’uomo solo e incapace di comunicare con una realtà che non gli appartiene è Aiace, protagonista dell’omonima tragedia, considerata il più antico dramma sofocleo. Achille è morto e gli Atridi, Agamennone e Menelao, capi dell’esercito greco, consegnano in segno di onore le sue armi ad Odisseo. Tale scelta provoca l’ira di Aiace che, pensando di aver subito un’atroce ingiustizia, in quanto amico di Achille e a lui assai simile, è punito dagli dei a causa di tale tracotanza (ύβρις) con una pena terribile: la follia più totale. Aiace trama vendetta e desidera fare una strage all’interno del suo stesso esercito, ma la follia ispiratagli dagli dei lo porta ad accanirsi su un branco di buoi e montoni credendo si trattasse dei suoi compagni. Una volta rinsavito, Aiace, dopo essersi reso conto del misfatto commesso, si vergogna profondamente di sé per la consapevolezza del fatto che la sua infamia avrebbe coinvolto la sposa Tecmessa, la famiglia e tutta la sua patria, Salamina. Finge così di assecondare i consigli di Tecmessa che lo invita a più miti consigli finché, alla fine, si dà la morte sulla riva del mare in uno stato di completo abbandono. La solitudine dell’eroe sofocleo emerge qui in tutta la sua drammaticità: Aiace non scende a compromessi, non ascolta Tecmessa né le parola del coro ed il suo comportamento rappresenta un po’ il simbolo della solitudine di chi non si adatta ad un mondo che sta cambiando e nel quale non si riconosce. Aiace è un eroe “omerico” a tutti gli effetti, è ancora inserito nella cosiddetta “civiltà della vergogna” e proprio questa sua statuarietà, questa sua diversità rispetto al mondo che lo circonda, un mondo in cui emergono personaggi a lui opposti come Odisseo, lo rendono un eroe fragile e solo, che crede ancora strenuamente nei sani ideali del suo “mondo” giungendo così a credere che solo la morte possa restituirgli quell’onore che l’ingiustizia della storia gli ha sottratto. Una mentalità così diversa è lontana dai quella di Aiace quanto straziantemente vicina. Forse nessuno oggi si sognerebbe di privarsi di un qualcosa di così sacro quale è la vita per una colpa commessa, ma ciò che conta non è la differenza di ideali, quanto lo straniamento che, seppur in una così grande diversità di epoche, accomuna Aiace a tutti noi: è lo straniamento di chi non si sente parte di una comunità, di chi non si riconosce nei valori o disvalori che dir si voglia di un mondo in continua evoluzione (o involuzione a seconda dei casi), è la solitudine di un uomo costretto a tale solitudine da una esistenza che gli ha fatto pagare cara la sola colpa di essere diverso.
Taxi Driver e la magia della solitudine scorsesiana
Nella settimana che ha visto gli occhi interi puntati sul Dolby Theater di Los Angeles, dove la scorsa domenica sono state consegnate le più celebri statuette dell’intero globo, è un onore per me rendere omaggio a uno di quei film che, pur non avendo vinto alcun premio Oscar, hanno fatto più di ogni altro la storia della settima arte. Nel 1976 le scorie di uno dei conflitti più atroci dell’ultimo secolo, la guerra del Vietnam, dilaniavano ancora l’America e, in un clima di completa sfiducia e diffidenza nei confronti dell’essere umano, un poco più che trentenne Martin Scorsese decise di portare sulla scena un semplice guidatore di taxi newyorkese di nome Travis Bickle, alias Robert De Niro e di renderlo uno dei personaggi cinematografici più amati della storia del cinema. Il titolo dell’opera è “Taxi Driver” e la sua storia è ormai divenuta leggenda. New York, 1976; Travis Bickle è un ex marine, un reduce del Vietnam traumatizzato dalla guerra ed imbottito di tranquillanti e psicofarmaci che dovrebbero aiutarlo a controllare il suo deliro ma che riescono solo ad alienarlo ulteriormente dal mondo che lo circonda. A causa dell’insonnia che non gli lascia tregua, decide di diventare un guidatore di taxi e sceglie non a caso il turno notturno. Ecco che la scintillante e sempre vitale New York diventa agli occhi di Travis un mondo falso, popolato da indifferenza, diffidenza e superficialità. E così, anche il promettente incontro con l’affascinante Betsy, che fa parte dell’elettorato del senatore Charles Palantine, candidato alle elezioni presidenziali, si rivela una delusione a causa dalla freddezza della donna, ma soprattutto della difficoltà di Travis ad abbandonare i suoi maldestri schemi di comportamento. Travis infatti è un uomo solo, invaso da un celato ma pervadente desiderio di interazioni umane, cosa che lo porta a cercare nella massa di umanità corrotta che ogni notte si paventa ai suoi occhi un cenno, un contatto, una parvenza di complicità. La guerra ha cambiato l’animo di Travis che, se precedentemente riusciva a guardare le cose in modo distaccato, ora la tragica esperienza che ha segnato la sua vita gli ha fatto ormai comprendere fino in fondo la deriva che ha preso la società, una deriva che l’acqua che Scorsese fa cadere continuamente su New York invece che pulire non fa altro che ingrigire e macchiare ancora di più. Le ambientazioni esterne e gli occhi di Travis diventano in tal modo i veri protagonisti del film, finché un evento non cambia completamente la sua inerzia ed acuisce il suo desiderio di vendetta verso un mondo che non sente più suo: una giovanissima prostituta cerca di fuggire dal suo protettore entrando nel suo taxi, ma viene portata fuori violentemente dal criminale, che lascia sul sedile di Travis 10 dollari oltre che l’indicazione di dimenticare ciò che ha visto. Incapace di sopportare oltre le brutture di un mondo malato, il pacifico tassista si trasforma in un vero e proprio giustiziere assetato di sangue. Travis diventa un po’ il simbolo di chiunque viva un’esistenza che lo ha colmato di pesi insostenibili, di chiunque abbia ricevuto in sorte un dolore, un dramma, un qualsiasi evento che lo ha posto nella condizione di sopravvivere piuttosto che di vivere. La follia e il senso di inadeguatezza del tassista sono dovuti alla guerra, cosa che accomunò molti reduci, ma anche noi nelle piccole disgrazie quotidiane siamo spinti in alcuni momenti della nostra vita a sentirci soli anche se circondati da affetti, isolati anche se amati, inadatti anche se perfettamente inseriti in una realtà salda. Eppure a volte è solo attraverso la solitudine che possiamo ritrovare il nostro io più nascosto, la nostra reale essenza spesso vilipesa e tradita da relazioni sociali intessute di falsità e opportunismo. Ecco che “secum morari” (dimorare in sé stessi), per dirla alla Seneca, può diventare la più grande delle medicine perché significa avere il coraggio di intrattenersi con i propri pensieri e dunque metterli alla prova, valutarli, correggerli. E allora accettiamo la solitudine quando il suo manto si impadronisce di noi, non ci facciamo devastare da essa, perché “la solitudine talvolta è la migliore compagna, e un breve esilio rende dolce il ritorno”.