Le torture della Folgore in Somalia: le dinamiche del ‘branco’

La crisi in Somalia e gli aiuti umanitari

Era il 1991 quando la Somalia cadde nel caos: dopo la cacciata del dittatore Siad Barre, il paese si era nuovamente frammentato nelle antiche fazioni tribali. In poco tempo la Somalia si era trovata spaccata in due: chi sosteneva il presidente provvisorio Ali Mahdi e chi il capo militare Farah Aidid. La guerra civile non ci mise molto a scoppiare e già l’anno successivo, nel 1992, la situazione era diventata insostenibile. I combattimenti stavano ledendo le già precarie attività economiche del paese, la fame colpiva imperterrita la popolazione e le violenze dilagavano: il mondo era di fronte ad un emergenza umanitaria di proporzioni preoccupanti. Tanto serie erano le condizione che la comunità internazionale decise di portare il proprio sostegno alla popolazione somala, compreso nella forma di aiuti militari. Le prime truppe ad arrivare furono quelle americane di George Bush, con la missione ‘Restore Hope’. In seguito altri paesi ONU mandarono i propri soldati: fra loro c’erano anche i paracadutisti della Folgore Italiana, con la missione ‘UNSOM-2’.

Il peggio però, forse, doveva ancora arrivare. Dopo i tentativi di pace di Addis Abeba, nei quali si era deciso per il completo disarmo di entrambe le fazioni somale. I capi di milizia però si ribellarono fortemente a questa decisione, schierandosi in blocco contro i soldati internazionali che erano inizialmente arrivati per prestare aiuto. Da quel momento le tensioni si ingigantirono: agguati, nemici dovunque e grande stress fisico e psicologico. Gli italiani iniziarono ad operare in una nuova missione internazionale denominata ‘Ibis’, ma l’accoglienza non fu per nulla calorosa: i ricordi dei vecchi coloni ancora disturbavano la mente dei somali, che vedevano nei nostri soldati dei nuovi ‘conquistadores’. Fu in questo clima di grandi tensioni che si verificano gli episodi agghiaccianti che verranno riportati da Panorama solo nel 1997: torture con elettrodi, stupri di gruppo con uso di bombe, pestaggi di donne e bambini.

Michele Patruno, foto di Panorama

La Folgore e l’orrore

Le testimoni principali sono le fotografie scattate da alcuni soldati di stanza in Somalia con la Folgore: Stefano Valsecchi (ex paracadutista) e Michele Patruno (ex caporale). Il primo, in un’intervista con Panorama, rivelò l’episodio stomachevole di quando alcuni soldati della folgore stuprarono una ragazza somala legandola ad un carro armato, con le gambe divaricate, inserendole una bomba illuminante cosparsa di marmellata nella vagina. Il tutto in un’atmosfera in cui i militari italiani ridevano e scherzavano. “C’era tanto casino” rivela Valsecchi. “ Più che un gioco era fare un qualcosa, un sentirsi grandi. Era stare nel gruppo“. Aggiunse in seguito: “E queste torture le hanno fatte tutti perché in Somalia non eravamo più noi stessi. Passi da un mondo civile a un mondo incivile: non trovi più il sabato e la domenica, non mangi più, non dormi più“.

Le foto riportate da Patruno invece mostrano come un ragazzo somalo venga torturato mediante scariche elettriche attraverso degli elettrodi che, anche qui, colpivano direttamente gli organi genitali. Il tutto, a quanto pare, sotto gli sguardi degli ufficiali che, a volte, erano pure i primi a partecipare.

Foto del ragazzo somalo a cui sono stati attaccati degli elettrodi agli organi genitali. Versione censurata.

Il ‘branco’

Se non sei cattivo e affamato è il branco che ti fa fuori” sono le parole dette da Michele Patruno nel documentario ‘La linea sottile’, dove lui racconta della propria esperienza in Somalia. Ne parlava anche Stefano, poco prima, del gruppo. Quello militare è un tipo di legame fortissimo che si viene a creare in momenti di grande stress e difficoltà, ma da cui è molto difficile uscire. Sia Patruno che Valsecchi sostengono che si formassero continuamente dei gruppi, e “quando gli ufficiali volevano divertirsi, tutta la banda gli andava dietro”. Stefano, in una lettera spedita a casa, rivelò di sapere che ciò che stava succedendo era un male: “Quelle urla mi arrivavano al cuore e volevo fare qualcosa […] Me le ricorderò sempre quelle urla e pensa che in mezzo a quelle persone c’era anche l’ufficiale di servizio. Comunque ho osato fare delle fotografie a quello ‘schifo’ che ho in mente”. Eppure, il piccolo atto di ribellione si ferma qui, in nessun altro modo Stefano mette in discussione i suoi ‘colleghi’, se non dopo essere tornato a casa, in Italia, a distanza di ben 4 anni dall’accaduto. Questo rinunciare ai propri ideali per adeguarsi al modo di veder prevalente si chiama ‘conformismo’ e può diventare estremamente pericoloso se abbinato ad un altro fenomeno: il ‘rambismo’. Esso è quel tipo di atteggiamento assunto da chi reca violenza indiscriminata con una punta di narcisismo verso se stesso e le proprie azioni.

Essere soli o non essere soli

Ma perché non ci isoliamo dal gruppo, se non siamo d’accordo con esso? Baumeister e Leary, due psicologi sociali, hanno ipotizzato che gli esseri umani abbiano un bisogno connaturato di appartenere. “Un istinto pervasivo a formare e mantenere almeno una minima quantità di relazioni interpersonali durevoli, positive e significative”.

Secondo la teoria evoluzionistica, la predisposizione a vivere in gruppo si è sviluppata perché funzionale alla sopravvivenza dell’individuo. Al giorno d’oggi non avremmo più bisogno di stare insieme per sopravvivere, ma ci rimane il retaggio di una forma mentis che ci accompagna da migliaia di anni. Per questo siamo terrorizzati di poter essere esclusi, e di conseguenza ci adattiamo anche a quelle idee del gruppo alle le quali, di nostra spontanea volontà, non aderiremmo.  Durante l’esperimento del ‘Lancio della Palla‘ lo studioso Williams scoprì come essere esclusi provocasse nelle persone sentimenti di ansia e nervosismo, mentre i giocatori inclusi rimanevano amichevoli e pacifici.

Le possibili reazioni ad un fenomeno di esclusione sono due: ‘fight or flight response’, ovvero l’affrontare direttamente i membri del gruppo per forzare la propria appartenenza, diventando più competitivi, oppure, in alternativa, scappare. L’altra opzione è ‘tend and befriend response’, che consiste nel conformarsi al gruppo mostrandosi amichevoli e in accordo con le opinioni generali.

Sasha Freemind, Unsplash

Non c’è dubbio su quale delle due sia stata adottata in Somalia e quale invece sarebbe stata la risposta migliore. La dinamica del gruppo e il rambismo, uniti alla discriminazione razziale verso gli africani, hanno portato a ingiustificabili distruzioni di abitazioni, violenze e abusi che il popolo italiano, scioccato dai propri figli, fratelli, padri, ha insabbiato. I processi contro i responsabili di queste azioni sono decaduti. Solo uno degli ex sottufficiali, Valerio Ercole, ottenne una pena di un anno perché identificato come l’uomo che aveva posto gli elettrodi sui testicoli del ragazzo somalo nelle foto di Patruno. Gli alti colpevoli sono rimasti a piede libero e ora girano nelle strade come se nulla fosse successo. Chi ha avuto il coraggio di dimenticare e, soprattutto, chi avrà la forza di ricordare?