I più grandi geni, le più grandi scoperte, i più grandi cambiamenti sono nati dal dolore, dall’incertezza, dalla crisi. La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno dalla notte oscura.
La vita di ogni essere umano è caratterizzata da periodi più o meno lunghi di dolore intervallati da attimi di felicità che sembrano colorare di un senso profondo la nostra venuta al mondo. Eppure spesso è proprio quando la terra sembra crollare sotto i nostri piedi che emerge il lato più vero di noi, perché l’incertezza genera voglia di riscatto, di rinascita, di creatività.
La crisi e l’esperienza del divenire nell’esistenza umana
Dare inizio ad un articolo incentrato sulla crisi sciorinando elucubrazioni filosofiche apparentemente inutili su concetti quali la staticità e il divenire potrebbe di primo acchito sembrare una trovata letterariamente alta ma concretamente poco efficace. Scrivere delle riflessioni su un concetto di questo tipo non è poi così complesso: una frasetta di Einstein, un riferimento letterario, una trovata finale e… il gioco è fatto! Beh sì… se stessimo parlando di uno di quegli argomenti con cui oggigiorno si intrattengono al bar masse di giovani dall’aspetto impeccabile che si improvvisano filosofi per fini tutt’altro che teoretici forse ciò sarebbe bastato! Peccato che qui stiamo entrando in contatto con un qualcosa che interagisce con i più profondi meccanismi che regolano la vita dell’uomo e, quando con le parole si prova a dare conto di un concetto che trascende dalla realtà fisica quotidiana per addentrarsi nel campo del non noto, la necessità di fornire qualcosa di maggiormente “creativo” sale prepotentemente a galla. Ecco allora che l’intero percorso che cercheremo di tracciare oggi avrà un unico scopo, dare una risposta che sia la più convincente possibile alla seguente domanda: “L’uomo in quanto tale è caratterizzato da uno statico immobilismo o da un dinamico istinto di trasformazione?” Ma per ora torniamo alla crisi e vediamo come essa può aiutarci a rispondere al nostro interrogativo.
Eh già la crisi… essa si può manifestare nelle forme più disparate, dalla crisi sociale a quella economica, dalla crisi ideale a quella individuale. Ogni epoca, ogni società, ogni individuo ha vissuto la sua crisi, ma ognuna di esse è stata caratterizzata da un elemento indiscutibilmente consequenziale: la rinascita. Sin da Eraclito l’uomo ha assunto consapevolezza di come la legge degli opposti regoli i meccanismi vitali e di come ogni elemento non possa avere ragion d’essere se non trovasse completamento nel suo opposto. Come potrebbe esistere il bianco senza il nero? E il fuoco senza il ghiaccio? Il bene senza il male? E così anche la crisi non fa eccezione, trovando piena concretizzazione nella rinascita che ne consegue, conditio sine qua non di ogni percorso di vita. Un esempio letterario a tal proposito può risultare illuminante.
Immobilismo sociale in “La Roba” di Giovanni Verga
Come ho già anticipato, la crisi può manifestarsi sotto diversi aspetti e nelle forme più disparate. Seppur il nostro obbiettivo sia quello di tracciare un percorso che ci porti a definire gli ingranaggi della crisi nell’universalità del concetto stesso, è bene partire da un caso concreto che ci possa permettere un primo approccio al tema: la crisi sociale. Uno degli scrittori che hanno portato maggiormente in auge la nostra letteratura di fine Ottocento è stato Giovanni Verga, massimo esponente del Verismo italiano, nonché autore di novelle e romanzi che portarono per la prima volta alla ribalta quelli che oggi siamo abituati a chiamare “invisibili” e che Verga chiamava semplicemente “umili”. Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare, anche se solo sui banchi di scuola, della storia di Padron ‘Ntoni e del suo carico di lupini, o quella di Gesualdo Motta, alias Mastro-don Gesualdo, personaggi che sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo e dei cuori di migliaia di persone nonostante l’oscurità del linguaggio siciliano che caratterizza le pagine verghiane. Tuttavia, allo scopo della nostra breve trattazione, ci soffermeremo oggi su una data, il 26 dicembre del 1880, anno in cui sulla rivista “Rassegna settimanale di politica, scienza, letteratura e arti” fece per la prima volta mostra di sé una novella tanto celebre quanto struggente: “La roba”. È la storia di Mazzarò, giovane bracciante senza scarpe né cappotto che vive della terra che deve zappare per i suoi proprietari e delle continue violenze fisiche e verbali che un contadino siciliano di fine Ottocento era costretto a subire ogni giorno della sua misera esistenza. Eppure Mazzarò non è come tutti gli altri e l’incertezza che caratterizza il suo presente lo spinge a non piegarsi all’ordine prestabilito giungendo, grazie soprattutto alla sua ‘testa come un brillante’, a farsi largo nelle intricate matasse della società agricola siciliana fino a diventare un ricchissimo proprietario terriero onorato con l’appellativo ‘eccellenza’ da quegli stessi uomini che poco prima lo avevano preso a calci nel sedere. Un finale da favola… potremmo pensare. Peccato che l’infame legge della vita porti la stabilità ad essere brama costante di ‘altro’, divenendo così più insicura e angosciante dell’instabilità stessa. La conquista da parte di Mazzarò di beni di lusso fa penetrare l’ex bracciante all’interno di quella che potremmo definire la “logica dell’accumulo”, ossia quel desiderio costante, una volta raggiunto qualcosa di grande, di non accontentarsi di quella conquista per il desiderio bramoso e incessante di un qualcos’altro che superi quanto ottenuto, facendo divenire la nostra vita un continuo rincorrere “roba” che un giorno o l’altro la morte divoratrice ci porterà via. È proprio questa la sorte a cui andrà incontro nel finale Mazzarò il quale, avendo azzerato ogni legame umano a favore dell’accumulo di beni materiali, giunge alle soglie della vita con tante ricchezze delle quali comprende la profonda inconsistenza. Ciò lo porta a invidiare il ragazzo seminudo, ‘curvo sotto il peso come un asino stanco’ che gli passa davanti, povero e affaticato, sfruttato, umiliato dal lavoro, ma ancora meravigliosamente giovane mentre lui, al cospetto della morte, vede vanificato il suo faustiano eroismo fatto di riscatto e rivalsa sociale. Ecco allora che la storia di Mazzarò diviene per noi illuminante perché ci permette di aggiungere un tassello fondamentale al nostro ragionamento. Chi meglio di Mazzarò può rappresentare l’uomo a dialogo con la crisi? La crisi di Mazzarò è una crisi duplice ed è proprio questa duplicità che ci mette al cospetto di una verità tanto profonda quanto angosciosa. Essa è sì la crisi dell’uomo bracciante che porta avanti un’esistenza di stenti, fatiche e violenze, ma è paradossalmente ancor di più la crisi del secondo Mazzarò che, una volta raggiunto il suo obbiettivo primario, la stabilità economica, vede in quella stabilità il peso più gravoso che gli potesse capitare. La crisi che nasce dal dolore genera incertezza e instabilità, ma è la stessa instabilità che a sua volta fa emergere il meglio di ognuno di noi perché ci obbliga a combattere, a non farci cullare da quel limbo di stabilità che spesso e volentieri accompagna le nostre grigie giornate, rendendoci automi, schiavi di un’esistenza fatta di certezze che ci schiavizzano e ottenebrano la vastità delle nostre menti.
Dove ricercare allora la felicità? Will Smith ci insegna la bellezza della vita
Sintetizzando, fino ad ora è venuto a crearsi, grazie al ragionamento che abbiamo portato avanti, il seguente puzzle: crisi-> mancanza di certezze-> voglia di riscatto-> progresso-> incontentabilità umana. Degno di leopardiana memoria, il processo qui sintetizzato vede ai suoi estremi una condizione ineluttabile di dolore interrotta solo nel mezzo da una parvenza di gioia figlia dello stesso dolore, a sua volta figlio di crisi. Eppure nel 2006 Gabriele Muccino diede vita ad un’opera cinematografica che, alla luce di quanto detto, sembra scontrarsi a piè pari con tale visione di vita dato il suo velleitario di fine di fornire una risposta ad una delle domande più antiche del mondo: “Cos’è la felicità?”. Il film è intitolato “The pursuit of happiness” e narra la storia di Chris Gardner, alias Will Smith, un californiano di mezza età che cerca di garantire una vita dignitosa e appagante alla moglie Linda e al vivace figlioletto di cinque anni Christopher nonostante la precarietà economica con cui è costretto a scontrarsi. L’acquisto di un ingente numero di scanner utili per verificare la densità ossea, ma giudicati inutili dai medici che il padre di famiglia aveva intravisto come possibili acquirenti, non fa altro che peggiorare la condizione economica della famiglia finché Linda, stanca dei continui progetti irrealizzati di Chris, non decide di abbandonare marito e figlio e di rifarsi una vita a New York. Ecco che ha inizio la storia di un padre e di un figlio costretti a farsi forza l’uno con l’altro per provare a risorgere dalle ceneri con cui il difficile mondo in cui madre natura li ha costretti ad abitare lì ha coperti. È la disperazione, la mancanza di appigli certi, la necessità figlia di crisi di accudire un innocente bambino privato dei più naturali mezzi di sostentamento che tengono in vita Chris, un uomo che proprio grazie al dolore riesce a tirare fuori tutto il suo spessore, un uomo che non cede di fronte a tradimenti, delusioni, dolori, sfortune, buttando il cuore oltre ogni ostacolo.
“Hey! Non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa. Neanche a me. Ok? Se hai un sogno tu lo devi proteggere. Quando le persone non sanno fare qualcosa lo dicono a te che non la sai fare. Se vuoi qualcosa, vai e inseguila. Punto.”
Ben detto Chiris… perché in fondo la vita è questa, la vita non è immobilismo, le certezze ci rendono schiavi di quella parvenza di tranquillità, di quella routine che non fa altro che precipitarci in un’agonia senza fine, da cui siamo scossi solo quando il viaggio tra la nascita e la morte ci priva di ogni certezza e ci costringe a rimetterci in gioco, passo dopo passo, tassello dopo tassello. Ecco così che anche l’ultimo della classe fa risplendere il meglio di sé, il brutto anatroccolo si trasforma in cigno e le tenebre nella luce più abbagliante. Ecco allora farsi largo quel concetto di divenire cui ho accennato ad inizio articolo e la risposta a quella domanda così intricata. Il divenire in quest’ottica diventa il minimo comune denominatore dell’esistenza di ognuno di noi perché ogni essere umano, nel bene o nel male, è spinto ad evolversi, a cambiare, ad abbandonare le noiose certezze per dare libera possibilità di esibizione a quell’affascinante ignoto tanto pauroso quanto salvifico che ci rende umani. In ogni campo, dalla storia alla letteratura, dallo spettacolo alla musica, dall’arte alla scienza le più grandi menti, le più grandi scoperte, i più grandi talenti sono figli di crisi, figli di una vita che li ha messi alla prova costringendoli a mettere piede fuori casa per far prepotentemente sentire la loro voce, mentre una congregazione di individui atteggiati ad intellettuali se ne stavano nel caldo delle loro confortevoli abitazioni, intrattenendo appassionanti dialoghi con la loro più fedele compagna di viaggio: l’ignoranza. Smettiamo di piangerci addosso, di colpevolizzare l’altro per quei fallimenti personali figli di mancanza di coraggio e della pigrizia nel non voler trovare soluzioni, l’unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per superarla! Einstein lo aveva già appreso alla perfezione…
“Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a farle nello stesso modo. La crisi può essere una vera benedizione per ogni persona e per ogni nazione, perché è proprio la crisi a portare progresso. La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.”