Il nano Tyrion Lannister è sin dal primo episodio uno dei personaggi più intriganti de Il Trono di Spade: fratello minore di una delle famiglie più importanti di Westeros, non potendosi distinguere nell’arte della spada come il fratello Jaime, fa della mente la sua arma più potente.
Proprio come Socrate, il “Folletto” è portato in tribunale dai suoi concittadini, e nonostante entrambi siano soggetti ad accuse attuali, è di antichi pregiudizi che la giuria cerca di punirli. In che modo si comportano i due personaggi? Quali sono le somiglianze e quali le differenze?
Nozze viola
Nella seconda puntata della quarta stagione si assiste alla morte più piacevole di tutta la serie: re Joffrey muore per avvelenamento alle sue stesse nozze. Forse le uniche lacrime versate sinceramente per la morte del re sono quelle di Cersei, regina reggente, che davanti al cadavere ancora caldo del figlio accusa il fratello Tyrion di essere l’assassino.
Pochi episodi dopo partecipiamo al processo del Folletto, dove ritroviamo il neo primo cavaliere Tywin Lannister, padre di Tyrion, a presiedere come giudice.
Nessuno dei presenti, né il pubblico a casa, crede veramente che Tyrion sia colpevole: tutti sanno che il nano si trova in quel tribunale solo perché Cersei e Tywin hanno approfittato del movente per eliminare il membro più scomodo e indesiderato della famiglia. Tyrion è cosciente della situazione e dopo aver ascoltato l’ennesimo testimone corrotto non si contiene più:
Tyrion: Padre, voglio confessare. Sono colpevole. Colpevole. Non è questo che vuoi sentire?
Tywin: Quindi ammetti di aver avvelenato il tuo re?
Tyrion: No. Di quello sono innocente, ma sono colpevole di un crimine più truce ed empio: essere un nano. La mia colpa è questa.
Tywin: Non sei di certo sotto processo per essere un nano.
Tyrion: Oh sì, invece. Sono sotto processo per questo dal giorno in cui sono nato.
Oracolo di Delfi
Nel 399 a.C. il primo dei filosofi viene accusato di empietà e portato nel tribunale di Atene. Socrate è obbligato a difendersi dalle accuse di ateismo, eterodossia e corruzione dei giovani, la sua condanna recita: “Socrate è colpevole. Indaga con animo empio le cose del cielo e della terra, fa prevalere la causa cattiva sulla buona e insegna agli altri a fare altrettanto”
Ma come sono nate queste calunnie? Perché è attribuita a Socrate questa cattiva fama?
“Ateniesi, debbo questa fama a una certa qual sapienza che posseggo.”
Socrate spiega nell’Apologia di Platone che la causa di questo pregiudizio è un’affermazione dell’oracolo di Delfi:
“Cherefonte, essendosi recato una volta a Delfi, interrogò il Dio per sapere se vi fosse qualcuno più sapiente di me. La Pitia rispose che nessuno era più sapiente.”
Le parole dell’oracolo confondono Socrate in quanto mettono in discussione le sue due certezze: la sua professione di ignoranza e l’incontestabile bontà degli Dei, che non permette loro di mentire. Per cercare di venire a capo di questo dilemma contraddittorio il filosofo inizia a interrogare uno ad uno tutti i “sapienti” di Atene, portando alla luce in ognuno di loro l’insipienza e l’arroganza che li ha portati a vivere nell’errore.
Questi dialoghi confutatori tenuti con il popolo di Atene sono illuminanti per il filosofo, il quale riesce finalmente a comprendere appieno il significato dell’oracolo: “Costui crede di sapere mentre non sa, ed è proprio per questa piccola differenza che appaio più sapiente, perché io non credo di sapere quello che non so.”
Socrate capisce che il compito che il Dio gli ha affidato è di portare gli uomini sulla via della conoscenza, deve dunque continuare a confutare le credenze degli Ateniesi, nonostante proprio la sua dialettica sia l’origine dell’avversione verso di lui, il vero motivo per cui si trova davanti a quella giuria.
“Mi vergogno a dire la verità, Ateniesi ma devo farlo! Questi esaminati se la prendono con me invece che con se stessi, ed essendo in molti, ambiziosi e violenti come sono, si sono messi insieme per diffamarmi con subdole argomentazioni, riempiendo da lungo tempo le vostre orecchie con accanite calunnie.”
Vorrei tanto essere il mostro che credete che io sia!
“Io vi ho salvati, voi e questa città e tutte le vostre insignificanti vite. Avrei dovuto lasciare che Stannis vi trucidasse tutti. Non ho ucciso io Joffrey, ma vorrei tanto averlo fatto. Vorrei tanto essere il mostro che credete che io sia. Vorrei avere veleno a sufficienza per tutti quanti voi. Sarei felice di dare la mia stessa vita per guardare mentre lo inghiottite.”
Con queste parole Tyrion si confronta col popolo di Approdo del Re, un popolo di ingrati che non riconosce il suo vero valore, non riconosce i sacrifici e le gesta eroiche che ha compiuto per salvare la città durante la Battaglia delle Acqua Nere. Il popolo, piuttosto che affrontare una realtà più complessa, si schiera con i suoi accusatori, dalla parte che richiede meno sacrificio.
Socrate certamente si espone meno, non è rigonfio di rabbia come lo è il Folletto -per di più, alla fine dei giochi Socrate il veleno deve inghiottirlo davvero- ma rimane sbalordito alle parole dei suoi accusatori:
“Mentre li ascoltavo, quasi dimenticavo me stesso, tanto era il fascino della loro eloquenza! Eppure, se debbo proprio dirlo, non v’era nulla di vero in quelle parole. Ma, tra tutte le menzogne, quella che mi ha maggiormente colpito è questa: hanno detto che dovete stare bene in guardia per non lasciarvi trarre in inganno da me, perché sono un astuto parlatore. Vi mostrerò con i fatti come non sia quell’astuto parlatore che dicono, a meno che per astuto non intendano chi dice la verità.”
Davanti al primo verdetto che lo ritrae colpevole, Socrate non è stupito. La legge ateniese vuole che l’accusato proponga una pena, così che, se la giuria si considera soddisfatta della punizione autoinflitta, non si debba eseguire la sentenza di morte. Ma Socrate non sfrutta questa possibilità come avrebbe potuto: “Io non intendo difendermi per me stesso, ma per voi, perché condannandomi non abbiate a peccare contro Dio, disprezzando un suo dono.”
Il filosofo si paragona ad un tafano, il cui compito è spronare Atene, il “cavallo grande e generoso, ma incline alla pigrizia e all’esigenza di essere spronato“. Spronare i suoi concittadini è dunque il compito divino che deve svolgere: “Dio mi ha destinato nella città, perché standovi addosso tutto il giorno, vi stimoli, vi esorti, vi corregga. Un uomo siffatto non lo riavrete tanto facilmente; e se mi date retta, mi risparmierete.”
Cittadini di Atene e di Approdo del Re!
Oltre ad essere stati entrambi incompresi dai loro concittadini e dalla giuria, ambedue i personaggi hanno rifiutato la possibilità di fuggire la condanna a morte e scegliere l’esilio.
Jaime Lannister, fratello di Tyrion, durante il processo riesce a convincere il padre -e giudice- Tywin a dare una possibilità al figlio: dichiarandosi colpevole e implorando il perdono sarà mandato in esilio alla Barriera dove diventerà un Guardiano della Notte. Non sarà più un Lannister, ma avrò salva la vita. Le parole pronunciate poche puntate prima da Varys, indirizzate a Tyrion, sembrano ora concretizzarsi:
“Molte persone sanno che senza di te questa città avrebbe affrontato il fallimento. Il re non ti darà alcun onore, le storie non ti menzioneranno, ma noi non lo dimenticheremo.”
Allo stesso modo Socrate viene aiutato durante il processo dagli amici Platone, Critone, Critòbulo e Apollodoro, i quali propongono di rendersi garanti di un’ammenda di trenta mine, nel caso in cui la giuria accettasse di mandare il filosofo in esilio.
“Propormi l’esilio? Dovrei essere davvero preso da una cieca brama di vivere, Ateniesi, se fossi così irragionevole da non comprendere che se voi, miei concittadini, non siete riusciti a tollerare me e i miei discorsi, non riusciranno certo a tollerarli gli altri. E che vita farei a quest’età, passando da una città all’altra, sempre cacciato via? Perché so bene che dovunque andrò terrò gli stessi discorsi.”
Tu non appartieni a questo posto
Socrate non abbandonerà mai la missione divina, e durante il suo discorso si chiede cosa risponderebbe a qualcuno che gli domandasse perché voglia continuare a fare qualcosa per cui rischia la sentenza di morte, e si risponde: “Hai torto se pensi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto la vita e la morte. Nelle sue azioni deve considerare unicamente se ciò che fa sia giusto o meno e se si comporta da uomo onesto o malvagio”
Parallelamente, in uno degli ultimi dialoghi pacifici con l’amante Shae, poco dopo la battaglia delle Acque Nere, Tyrion afferma di dovere -e volere- restare fedele alla sua città, al suo compito:
Shae: Andiamo via, lasciamo Approdo del Re, hanno tentato di ucciderti, tenteranno di nuovo. Andare in battaglia, combattere contro soldati, sei terribile in questo. Prendiamo una nave per Pentos e non facciamo più ritorno. Tu non appartieni a questo posto.
Tyrion: Voglio andare con te.
Shae: Allora facciamolo. Tuo padre, tua sorella, tutte queste brutte persone non possono fermarti. Dimenticati di loro, vieni con me.
Tyrion: Non posso. Io appartengo a questo posto. Con queste brutte persone. È quello che so fare meglio, è quello che sono, e mi piace. Mi piace più di qualunque cosa io abbia mai fatto.
Non curanti della morte e del pericolo, Socrate e Tyrion decidono di restare fedeli alla propria città, nonostante questa non ricambi i loro sacrifici.
“Questa è la verità, Ateniesi: quando un uomo sceglie di stare in un luogo ritenendolo il migliore, o dovunque sia posto da un suo superiore, lì deve restare; qualunque sia il pericolo da affrontare, senza temere la morte né altro, in confronto al disonore.”
È tempo ormai di andare
Il finale è ciò che distingue i due personaggi. Socrate accetta la condanna a morte, perché nonostante non si consideri colpevole, non può contraddire la sua assoluta fedeltà alle leggi di Atene. Al contrario Tyrion considera la sua vita non degna di essere conclusa pagando per un reato che non ha commesso: “Non ho alcuna intenzione di dare la mia vita per l’omicidio di Joffrey, e so che in quest’aula non riceverò alcuna giustizia. Lascerò perciò agli dei decidere il mio fato. Io reclamo un processo per combattimento.”
Il processo per combattimento è ancora considerata una scelta “legale” a Westeros, e nell’ottavo episodio della quarta stagione assistiamo allo scontro tra Oberyn Martell, in rappresentanza di Tyrion, e La Montagna come campione della regina. Tristemente però il duello non finisce bene per Tyrion, e Oberyn Martell viene ucciso.
Infine Tyrion mantiene la sua promessa e pur di non dare la sua vita per l’assassinio del re, fugge la città, sceglie la vita. La sua strada si intreccerà poi con Ser Jorah che lo condurrà alla regina dei draghi, e la sua avventura andrà avanti, ma sarà stato per il meglio?
“Vedo che è tempo ormai di andare via: io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, solo Dio lo sa.”