Così ANSA.it commenta il rapporto Istat 2018 in riferimento al matrimonio e alle separazioni: “Forte calo dei coniugati e aumento dei divorzi. Lo rileva l’Istat nel report sulla popolazione. La diminuzione e la posticipazione della nuzialità, in atto da oltre quaranta anni – spiega Istat – ha portato tra il 1991 e il 2018 a un forte calo dei coniugati, soprattutto nella classe di età 25-34 anni. Nella classe di età 45-54 anni quasi un uomo su quattro non si è mai sposato mentre è nubile quasi il 18% delle donne. Aumentano in tutte le età divorziati e divorziate, più che quadruplicati dal 1991, principalmente nella classe 55-64 anni.”
I dati rivelano un trend, immodificato da circa trent’anni, che permette due considerazioni: da un lato, si assiste al progressivo disinvestimento dal legame coniugale; dall’altro, aumentano le coppie che scelgono la separazione come soluzione alla crisi matrimoniale. Queste considerazioni meritano un’ipotesi differenziata.
Da un punto di vista culturale, i matrimoni in calo riflettono la tendenza sempre maggiore a trascorrere parte della vita di coppia condividendo un tetto, senza ulteriori legami civili o religiosi. Questo permette di sentirsi meno vincolati a una promessa, un patto tra amanti che spesso si rivela una scelta difficile da sostenere. Il punto, tuttavia, non è da ricercare nella scelta di convivere per un determinato periodo di tempo, quanto nel fatto che, a quanto pare, spesso esso si tramuta in una non scelta.
L’istanza del matrimonio, sia esso civile o religioso, ha in sé il riconoscimento ufficiale da parte della società. La differenza tra la convivenza e il matrimonio risiede, da un punto di vista simbolico, nel permettere che sia la legge a sancire l’ufficialità di un rapporto amoroso. Nondimeno, accettare pubblicamente il riconoscimento del proprio legame, implica la consapevolezza che questo dovrebbe essere un investimento per la vita, definitivo, senza ritorno. E questo, oggi, spaventa. Per investimento si intende un’operazione in cui io, sulla base di emozioni e valutazioni personali e soggettive, formulo un progetto a lungo termine atto ad arricchirmi attraverso il legame con l’altro. L’amore, in questo senso, è un investimento speciale. Quando è reciproco, nasce la coppia.
La coppia, quando l’investimento è per la vita, sceglie il suo modo peculiare e specifico di vivere il proprio amore. Non c’è un modo giusto o un modo sbagliato, solamente quanto di più appropriato e funzionale esiste in quel preciso momento per quei due soggetti che hanno deciso di legarsi sentimentalmente. Negli ultimi trent’anni, sembra che il matrimonio, come modalità di stare insieme, abbia perso la sua attrattiva. Da un lato, ci si sente meno obbligati in quanto i rapporti sembrano oggi meno influenzati dalla necessità di un riconoscimento ufficiale. Dall’altro, fattori economici e culturali hanno contribuito a questa diminuzione, oltre che l’impatto che la separazione genitoriale ha sui figli e sulla creazione della loro idea di relazione.
Volendo però spingersi nelle pieghe delle scelte individuali, ovvero ciò che muove un essere umano a scegliere una persona per la vita, è possibile riscontrare nel legame ufficiale e pubblico sia la paura dell’impegno, sia una dimensione di obbligo. È chiaro che sperimentare il matrimonio in questi termini spaventa, allontana e rende più insicuri. Ma perchè? Duprè La Tour (2005) afferma che: “la paura dell’impegno è spesso legata all’angoscia di perdita dell’autonomia – perdersi nella coppia o perdersi nell’altro”. Minolli (2016) evidenzia bene come ciò sia vero solo ed esclusivamente in caso l’accezione di autonomia sia solipsistica e individualistica.
Se infatti è probabile che sia necessario sentirsi sufficientemente sicuri della propria identità per tollerare l’inter-dipendenza, è anche vero che questo passo non si compie secondo una logica lineare: io sono sicuro di me, quindi posso amarti. L’amore emerge come un traboccare incontenibile e, semmai, è proprio nel rapporto amoroso che l’uomo può aumentare la consistenza del proprio essere, quando l’investimento è per la vita.
Il secondo dato è l’aumento delle separazioni, ovvero una scelta di risoluzione, più o meno consensuale, del patto sancito ufficialmente. In questo senso, è possibile stabilire una continuità tra ciò che, inizialmente, sembra una scelta per la vita e ciò che invece diventa una strada di disgiunzione. La crisi di un rapporto coniugale può derivare da litigate furiose, da una graduale indifferenza, dalla scoperta di un tradimento, persino dalla nascita di un figlio.
Nel caso dei litigi, è probabile che ciò derivi dal tentativo di affermare se stessi e chiedere all’altro di riconoscere le proprie ragioni. Ma il litigio è appunto espressione di un momento in cui entrambi i componenti affermano se stessi, chiedendo all’altro che le proprie ragioni vengano riconosciute. In quest’ottica, la litigata allora si colora di una tonalità che ricorda la paura di perdere l’altro. Una paura che, quando profonda e basata su una personale inconsistenza, mette radici su ferite antiche, al punto da generare una frattura.
L’indifferenza è forse la più difficile delle situazioni di crisi da affrontare. Quando il rapporto sembra congelato, cristallizzato in una fase di secca, allora è il ritiro a dominare la scena. Un ritiro caratterizzato da un personale vissuto di offesa, risentimento, rivendicazione o dolore. Più raramente l’indifferenza si presenta in quanto tale: è difficile che un amore per la vita, improvvisamente, si spenga completamente. Il ritiro è dunque pensabile come una paura del litigio? Un tentativo di porre rimedio, in modo passivo, alla paura di perdere l’altro? il timore di oltrepassare un confine dove il conflitto non è più un tiro alla fune in cui mettersi alla prova, ma il rischio di scoprire una fine. Ed è per questo motivo che porsi passivamente, rinunciando alla propria affermazione, risulta per alcuni forzatamente necessario.
Il problema è che l’accettazione passiva frustra e nega la possibilità di accedere ai personali desideri e bisogni, riconoscendoseli, diventando alla lunga insostenibile. Una scelta per la vita, riconosciuta pubblicamente e ufficialmente, che nell’immaginario simbolico assume il carattere di garante della stabilità e della reciprocità, non può rivelarsi così deludente. Dunque la scelta diventa tornare sui propri passi, riconsiderare le proprie posizioni, pensare di aver sbagliato.
Personalmente, non sono un sostenitore dei rapporti da mantenere a tutti i costi. Ma sono altresì convinto che un rapporto, per durare anni, per durare una vita, non possa rimanere uguale a se stesso nel tempo. L’evoluzione, dei singoli soggetti e della diade coniugale, deve necessariamente poggiare su una concezione personale di stare in relazione che non sia un datum ma un compito, una ricerca in divenire che permetta, come soluzione alla crisi, una crescita piuttosto che una stagnazione, un arricchirsi con l’altro piuttosto che attraverso di esso, sul sottile confine tra inter-dipendenza e strumentalizzazione.
Fiorenzo Dolci