Ecco perché a volte ti sembra che internet ti legga nel pensiero.
Ma come fa il mio smartphone a sapere che sono in cerca di un regalo per la figlia dell’amica di mia madre e che domani voglio cucinare una torta veloce per la quale mi serve la ricetta? Perché forse mentre ne parlavi o discutevi sull’opportunità o meno di mettere il lievito nell’impasto avevi il tuo cellulare in mano? O più semplicemente perché, forse ieri , forse il mese scorso, hai già cercato qualcosa di simile e il tuo telefono lo ricorda bene. Se ti stai chiedendo un po’ spaventato, un po’ incuriosito, come tutto questo sia possibile nonostante il tuo diritto alla privacy, questo è l’articolo che fa per te.
Ritmo di un algoritmo
Non aveva proprio intenzione di innamorarsi il protagonista dell’ultimo singolo di Willie Peyote, almeno fin quando, la ragazza di cui parla, non è riuscita a decifrare anche le emozioni criptate, proprio come un algoritmo. Con questa efficace similitudine, il cantante ci aiuta a capire, forse in maniera più accessibile, il potere di qualcosa che oggi riguarda le nostre vite più di quanto possiamo pensare: un algoritmo è un insieme di istruzioni matematiche utili a processare dei dati o risolvere problemi, un insieme di piccoli passi da compiere per arrivare ad un risultato in maniera semplice e in poco tempo. E se chiunque, leggendo la definizione, potrà pensare che le istruzioni matematiche non sono qualcosa che riguarda minimamente le azioni quotidiane, si sbaglierà di grosso. Basti pensare infatti, che operazioni da noi compiute quotidianamente come un prelievo di denaro, la ricerca di un luogo, sono possibili grazie agli algoritmi, di cui sono vittime fortemente anche tutte le piattaforme social. Instagram, una tra quelle più usate tra i giovani, spesso sembra che sappia informazioni che ci riguardano anche prima di noi. Lo notiamo nei post proposti nel feed o nelle sponsorizzazioni che appaiono tra una storia e l’altra: instagram ci conosce grazie all’incrocio di informazioni da noi seminate sulla piattaforma come mi piace, profili visitati, post pubblicati. Se siamo particolarmente interessati ad uno dei nostri seguaci per qualsiasi ragione, il nome di quell’utente apparirà tra i primi profili ad aver visualizzato la nostra storia, lasciandoci sì appagati ma altrettanto increduli. Questo è un aspetto tanto inquietante quanto interessante dei social network, un mondo ancora da scoprire a fondo per informatici, ma anche giuristi poiché completamente collegato al diritto alla privacy.
Uso/abuso dell’algoritmo
L’idea di controllo da parte di questi strumenti quasi onnipotenti desta infatti non pochi dubbi : essendo essi una costruzione umana, recano nella loro natura il rischio di diventare nocivi. Basti pensare che si è provato ad inserire l’algoritmo anche nell’ambito della giustizia penale: in America infatti i giudici hanno provato ad affidare la decisione circa l’opportunità di concedere la sospensione della pena all’uso di algoritmi predittivi. Essi infatti, attraverso domande rivolte all’imputato, erano in grado di calcolare il rischio di recidiva del condannato, basando sulla risposta elaborata la possibilità di concedere la libertà a quest’ultimo. Il problema si è posto quando ci si è accorti che gli algoritmi soffrivano (in quanto figli dei programmatori) di bias cognitivi: il risultato cambiava infatti in base alla nazionalità, al sesso o al colore della pelle dell’imputato, creando a causa di questi pregiudizi non poche discriminazioni. Gli algoritmi inoltre erano coperti da diritti di privativa intellettuale: erano dunque indecifrabili per l’imputato e la sua difesa, creando dei veri e propri problemi di trasparenza circa la decisione penale e dunque la verifica di avvenuto giusto processo e non violazione dei diritti umani. Ma, senza spostarci oltreoceano, è di aprile l’algoritmo lanciato dall’Agenzia delle Entrate che aiuterebbe il Fisco a controllare i conti degli italiani: attraverso il monitoraggio di tutte le entrate, uscite e versamenti dei singoli cittadini l’algoritmo verificherebbe eventuali incongruenze tra gli effettivi movimenti e quanto risultante nella dichiarazione dei redditi, andando a caccia, molto più rapidamente e semplicemente, degli eventuali furbetti. Un esempio, quest’ultimo, di come, a differenza del primo caso, il mondo dell’informatica prenderebbe per mano quello del diritto, creando collaborazione e facilitando alcuni processi : ciò avviene anche nei casi degli algoritmi di predictive–policing, elaborati per indirizzare le operazioni di polizia in Italia o Stati uniti calcolando le zone delle città più a rischio e le fasce orarie più bisognose di controllo. Quello che però bisogna tenere a mente è il rischio di trasformare il mondo in una società Orwelliana, in cui il controllo delle nostre vite supera la nostra volontà e aspettative e rischia di diventare, più che un tentativo di facilitare alcuni meccanismi , una gabbia tutta tecnologica.
Attenzione ai cookies
Se per ora nessun esperimento o ricerca ha portato evidenze scientifiche circa la capacità degli smartphone di ascoltare le nostre conversazioni, quello che è certo è che le molliche di pane seminate durante le nostre ricerche tra i vari siti web consegnano un vasto patrimonio di informazioni su di noi, su quello che ci piace fare o su quello che vorremmo comprare. Accedendo ad un sito web, quasi sempre, prima di continuare con la ricerca apparirà una notifica: un messaggio lungo e dal sapore di perdita di tempo, che, pur di non leggere, cercheremo di eliminare, facendo click non sull’opzione che ci avrebbe concesso altre informazioni, ma sul messaggio più visibile e colorato accetta tutti i cookies. Ma cosa sono i cookies? Anzitutto per capirlo è necessario specificare che si differenziano in base alla loro durata, provenienza e, cosa che ci interessa maggiormente, in base alla loro funzione: esistono infatti cookies tecnici, utili solo alla corretta navigazione nel sito, oppure di profilazione , cioè la vera memoria permanente delle nostre ricerche, il raccoglitore dei nostri gusti e delle nostre abitudini, utile quando il server dovrà selezionare le pubblicità da proporci. Capiamo bene dunque come siano labili i confini tra lo spazio di operatività dei cookies e il nostro diritto alla privacy, materia sulla quale il legislatore comunitario ha sentito l’esigenza di intervenire: la prima volta nel 2002 con la direttiva sul Trattamento dei dati elettronici e poi in maniera più incisiva con la famosa Cookie Law del 2015 e con il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali dell’anno seguente. Quello che in sostanza ha previsto l’Unione Europea sono una serie di obblighi da rispettare come l’identificazione dell’utente solo in forma cifrata, l’obbligo di consenso dell’utente anche per la cessione di informazioni contenute nei cookies a terzi e limiti per la durata e la cancellazione degli stessi. Ogni sito deve prevedere un’informativa breve (a cui la maggior parte degli utenti si limita) e una estesa, che specifichi i tipi di cookies presenti e dia la possibilità di concedere il consenso a uno e negarlo ad un altro. Ecco perché mettendo nel carrello di uno shop online qualcosa che ci piace, nelle successive ricerche lo stesso oggetto o simili ci verranno riproposti , stimolando la nostra curiosità , attenzione e voglia di cedere alla tentazione dell’acquisto, obiettivo della pubblicità e più in generale del marketing.
Alla luce di ciò ci sembra forse assurdo il dibattito che ha scatenato il lancio dell’app Immuni, utile a segnalarci eventuali positivi al Covid-2019 nelle nostre vicinanze, negli ultimi mesi di pandemia: molti sono stati i dubbi sollevati circa il rischio riguardante il trattamento dei dati personali, la privacy, la tracciabilità dei movimenti dei cittadini, compromesso per molti inaccettabile. Ma se siamo disposti a seminare pezzi di noi in giro navigando nel mondo dell’internet, non è forse il caso di fare un passo indietro se l’app Immuni fosse davvero efficace? Certo, il rischio di un’invasione della tecnologia nella nostra sfera soggettiva e privata è un argomento come abbiamo visto molto delicato, ma esistono secondo voi circostanze in cui vale la pena correrlo?
Internet ci conosce e, come ben sa Willie, non c’è password che tenga, che si parli di algoritmi o, a mali estremi, di amore.