Fra i temi più delicati e complessi da trattare v’è senza dubbio quello del suicidio: un atto capace di alterare la logica della natura.
Avvicinarci a comprendere il suicidio è forse possibile vivendo un’esperienza che ci porti anche solo a contemplare di compiere un atto del genere. Tuttavia, una vaga idea della questione ci è stata fornita dai grandi del passato. Fra i tantissimi, interessanti sono in particolare i punti di vista di Ugo Foscolo e di Primo Levi, con cui andremo a vedere se il suicidio sia un gesto razionale o non.
Il suicidio oggi
Il tema del suicidio è evidentemente un tema atemporale. Contemplato fin dagli antichi (si pensi anche solo al famoso caso socrateo), ancora oggi capita di pensare come sia possibile che l’essere umano arrivi a compiere un gesto che vada contro ogni legge della natura e che non sia proprio di nessun altro animale. Tema però che oggi si fa sentire ancora più forte: l’Osservatorio Suicidi Covid-19 istituito dalla Fondazione BRF ha registrato a partire da marzo, ovvero a partire dall’isolamento domiciliare forzato, 62 casi di suicidio in Italia legati al virus. Cifra che arriverebbe, aggiungendo i casi di tentato suicidio, a un più di un centinaio di unità. Suicidi, questi, dovuti alla grave crisi economica che sta colpendo buona parte del mondo, e a un aumento generale di stress e ansia. Gesti che, per quanto estremi, sembrano tuttavia essere legati a una razionale premeditazione e lucidità, come si cercherà di dimostrare con l’aiuto di due autorevoli testimonianze.
La concezione del suicidio in Foscolo
Foscolo è stato senza dubbio nella nostra tradizione letteraria uno dei primissimi, se non il primo, a trattare il tema del suicidio in una chiave moderna e completamente svincolata dalla concezione cristiana. Il forte materialismo foscoliano ha portato infatti questo autore a vedere nell’atto del suicidio un gesto di estremo eroismo, così come si “teorizzava” nel Werther di Goethe e così come, molti secoli prima, era contemplato da Catone l’Uticense, morto suicida per la patria e la libertà politica e personale. E così, difatti, si concludono le Ultime lettere di Jacopo Ortis per la profonda delusione amorosa e politica del protagonista. Romanzo questo in cui ci appare di particolare interesse un passo forse meno noto che in realtà anticipa di molto il gesto finale. A seguito infatti del Trattato di Campoformio, per cui l’autore-personaggio si sente vittima di “tradimento” politico, e a seguito del sostegno di tale trattato da parte di Odoardo, “rivale” di Jacopo, il protagonista sta per compiere un gesto estremo: gettarsi da una montagna. Ma, arrivato in cima, guardando il vuoto, improvvisamente si ritrae. Un suicidio sventato, dunque, dove l’elemento di irrazionalità, l’elemento passionale non sta nel aver quasi compiuto il tragico gesto. Risiede invece proprio nell’impulsiva resistenza a tale atto.
Il caso di Primo Levi
A conferma di tutto questo ci viene in soccorso uno dei casi forse più tragici di suicidio; un suicidio come conseguenza di una delle più grandi disumanità mai commesse dall’uomo. È il caso di Primo Levi, figura fra le più importanti del periodo contemporaneo, scrittore, chimico e partigiano antifascista, reduce dall’infernale esperienza del Lager. Ma Primo Levi il suicidio non l’ha solo sperimentato, ma ha riflettuto anche sulla sua natura in quell’opera che si potrebbe dire testamentaria: I sommersi e i salvati, uscito nel 1987, un anno prima della sua morte. In un passo dell’opera l’autore con grande sottigliezza analizza il caso di suicidi nei Lager, facendo notare che tali gesti erano se non unici, almeno rarissimi. Come si spiega? Si spiega, ci dice Levi, con il fatto che i detenuti si trovavano in una tale condizione di bestialità, di bassezza umana, che tutti i loro sforzi cognitivi, tutti i loro pensieri erano ridotti per l’intera giornata a un’unica e sola cosa: sfamarsi e idratarsi. Ogni loro preoccupazione era dunque limitata ai soli prioritari e necessari bisogni che il nostro corpo richiede. Non c’era spazio nella mente per altri pensieri, non c’era momento, tempo, per poter pensare ad altro, al suicidio. Era qualcosa che non era neanche contemplato. Questo, appunto, come afferma l’autore, perché il suicidio è qualcosa di premeditato, di estremamente razionale. Qualcosa che si scaglia e combatte contro il nostro primordiale senso di sopravvivenza che per natura ci è imposto. E questo ha dimostrato concretamente Primo Levi, che dopo ben 43 anni dall’esperienza della Shoah, corroso nell’animo dal senso di colpa per esser sopravvissuto quando molti altri non ce l’avevano fatta, decise di togliersi la vita.