
Dopo il crollo del viadotto Polcevera a Genova, il tema della sicurezza dei ponti è passato al centro del dibattito nell’opinione pubblica. Nel mondo non mancano esempi di costruzioni ultramoderne, ma a fianco a loro sono ancora in piedi (e spesso in uso) decine di ponti costruiti secoli e secoli fa.
In “Roman Bridges”, scritto dall’ingegnere statunitense Colin O’Connor nel 1993, sono menzionate ben 418 costruzioni romane tra ponti e acquedotti, ancora totalmente o in parte conservate. Avvenuta, purtroppo, la tragedia del ponte Morandi, gli italiani si sono ricordati degli antichi ponti che si reggono in alto con stabilità da ben duemila anni costruiti dai Romani.
I ponti romani conosciuti sono circa 900, secondo una lista stilata da Vittorio Galliazzo nel 1995. Questi si trovano sparsi per tutto quello che una volta fu gloriosamente l’Impero romano. Effettivamente molte di queste costruzioni sono ancora integre e in uso, basti pensare, solo in Italia, ai noti Ponte Milvio, Ponte Fabricio e Ponte S. Angelo a Roma, al Ponte di Tiberio a Rimini, al Ponte del Diavolo di Cividale del Friuli. Il più conosciuto è ponte Milvio a Roma, riedificato in pietra nel 110 avanti Cristo. Inoltre sul ponte di Tiberio (costruito a Rimini tra il 14 e il 21 d.C.) passano ancora le auto. Allievi degli Etruschi, i Romani fecero dell’ars pontificia un’arte sacra: il più alto grado sacerdotale era quello del Pontifex Maximus, magistrato che si occupava appunto della costruzione dei ponti. Successivamente la carica fu traslata metaforicamente nella Chiesa cattolica, attribuendo al vescovo di Roma la funzione mistica di tramite fra l’uomo e Dio. I ponti romani possiedono il record di essere i più grandi e duraturi dell’antichità. Ad esempio quello di Traiano, progettato da Apollodoro di Damasco, vantava una lunghezza di 1135 metri e una larghezza di 15 e rimase sospeso per oltre un millennio a 19 metri sopra il livello del Danubio, nell’odierna Romania. Oltretutto fu realizzato in soli due anni: questo dovrebbe far ben sperare circa la recente promessa di Autostrade di ricostruire il ponte Morandi in cinque mesi.

Il segreto della longevità Spiegato il segreto della longevità di tali strutture dall’ingegner Flavio Russo, specializzato in archeologia sperimentale e nella ricostruzione di antiche macchine belliche romane: “Il fatto è che i ponti romani erano edificati con materiali non deperibili come la pietra, invece del calcestruzzo. Non vi era metallo nelle loro strutture portanti, al contrario del nostro cemento armato che, se possiamo dire, ‘porta la morte dentro’. La cosiddetta ‘carbonatazione del cemento’, ovvero la reazione chimica provocata dal contatto con l’anidride carbonica, provoca fessurazioni all’interno della struttura nelle quali penetra l’acqua piovana. Così il ferro, già provato dalla fatica meccanica cui è sottoposto, si arrugginisce e, oltre a perdere le sue proprietà di resistenza e resilienza, si rigonfia e in certi casi spacca il cemento. Vi è poi il fenomeno della corrosione galvanica: le cosiddette ‘correnti parassite’, che si propagano per l’armatura metallica, erodono elettroliticamente il ferro, tanto che oggi si parla di ‘Protezione catodica’ per ridurre gli effetti del fenomeno tramite alcuni dispositivi elettrici. Tutto questo non avveniva nei ponti romani che tra l’altro, si avvalevano di un’architettura fondata sull’arco e non sull’architrave, come la nostra. In tal modo, le costruzioni romane lavoravano sempre per compressione, e mai per trazione”.

Il procedimento costruttivo romano prevedeva la temporanea deviazione del corso d’acqua tramite un sistema di palizzate e dighe. Si procedeva, quindi, allo scavo per raggiungere il massiccio roccioso su cui fondare i piloni del futuro ponte. Dopodiché si alzava una struttura lignea dotata di una sagoma semicircolare; su di essa venivano appoggiati i conci, pietre squadrate con un opportuno taglio trapezoidale. Si utilizzavano delle gru dotate di paranchi a vari rinvii per posizionare le pietre sulla centina di legno fino ad essere unite al centro dell’arco dalla cosiddetta chiave di volta, un concio solitamente più grande degli altri. A volte, le pietre venivano legate fra loro con della malta. Quando la centina di legno veniva rimossa, tutto il peso della struttura si scaricava sul terreno consentendole di sopportare enormi carichi.
Un mito da sfatare è quello della manodopera servile usata dai Romani nelle grandi opere. Utilizzare gli schiavi, alla fine, risultava più oneroso che non stipendiare liberi operai, i quali non avevano bisogno di guardie per essere costretti al lavoro.
Gli unici accidenti che potevano distruggere un ponte romano riguardavano assestamenti imprevisti del terreno, terremoti o eventi bellici. La guerra, infatti, a volte, comportava la necessità di distruggere un ponte, onde tagliare la strada al nemico invasore.

Il principio romano di costruire con materiali non deperibili, in epoca contemporanea, animò, con un chiaro intento ideologico, le opere più celebrative di Albert Speer, l’architetto della Germania nazionalsocialista. Hitler stesso era un fanatico ammiratore dell’architettura romana e in un suo discorso dichiarò: “Lo scopo dell’architettura nazista dovrebbe essere quello di creare le rovine che saranno fra mille anni, e quindi di superare la transitorietà del mercato”. Per questo motivo, sebbene i tedeschi dell’epoca usassero ampiamente il cemento armato nelle strutture di uso militare, nei monumenti di carattere simbolico non venivano usate armature metalliche. Lo scopo visionario era quello per cui, dopo un millennio, le rovine del Terzo Reich millenario avrebbero dovuto rassomigliare a quelle greche e romane.

La ‘vergogna’ del cemento armato
In Italia, il cemento armato fece la sua prima comparsa a Pavia, nel 1883, in un palazzo edificato dall’ingegnere Angelo Lanzoni. Per vari decenni a venire si sarebbe fatto uso di questa nuova tecnica con una certa vergogna, dato che veniva considerata una sorta di ‘scorciatoia costruttiva’.
Gli edifici venivano, quindi, rivestiti di intonaci e stucchi per fornire al pubblico l’illusione che fossero realizzati ancora con materiali nobili come pietra e laterizio, assemblati secondo i sapienti precetti delle antiche leggi statico-architettoniche. Un simile atteggiamento è perdurato fino alla fine degli anni ’30: lo stesso Palazzo della Civiltà Italiana, nel quartiere romano dell’Eur, inaugurato nel ’38, fu costruito in cemento armato, ma venne rivestito di candido travertino. Questo tipo di rivestimenti, oltre a celare alla vista le crude strutture in cemento armato, svolgevano anche la funzione di proteggere dagli agenti atmosferici il ferro di tondini e putrelle.

L’architettura del dopoguerra, invece, sulla strada aperta da Le Corbusier, avrebbe cominciato a esibire orgogliosamente gli elementi strutturali in cemento armato, in netta contrapposizione a tutto ciò che era ritenuto accademica ornamentazione. Il cemento armato si mise quindi a nudo, per la prima volta, dovendo però affrontare tutti i rischi connessi.

L’insegnamento utile dei Romani
E’ oggi ancora pensabile ispirarsi all’architettura romana per realizzare opere che resistano al mezzo secolo di vita? Flavio Mangione, presidente dell’Ordine degli Architetti di Roma, sostiene che realizzare opere pubbliche con muratura portante mista e, magari, in legno con effetto antisismico sarebbe anche possibile, ma avrebbe dei costi significativi. Il punto fondamentale riguarda sempre la scelta di materiali e dei soldi da investire: oggi è possibile costruire un ponte di cemento armato che duri anche 200 anni, purché sia realizzato con acciaio e cemento di qualità altissima, come quelli impiegati per costruire centrali atomiche. Si può anche decidere, viceversa, di costruire un’opera a ‘obsolescenza programmata’ con materiali di minore qualità, purché si preveda, dopo un tot di anni, la sua demolizione e ricostruzione. Tutto dipende dalle scelte politiche: se c’è una visione generale, estetica, culturale e costruttiva si possono realizzare grandi opere durature. Una condizione indispensabile è però che il denaro non si perda nei rivoli della corruzione. Quello che possiamo mutuare oggi dai Romani non riguarda tanto le tecniche costruttive quanto l’approccio culturale: ampiezza di visione, importanza degli investimenti e severità assoluta nei controlli.
Sara Coriassi