I nostri genitori non hanno figli: chiacchieriamo su un secolo di orfanità con Marco Marsullo

Quanto è cambiato il rapporto verticale dalle commedie di Terenzio ai giorni nostri

Oggi si può, a buona ragione, parlare di “un’orfanità” dei figli nei confronti dei loro stessi genitori: mancanze non solo fisiche e affettive, ma basate sull’incomunicabilità tra due generazioni sempre più distanti. Questa l’analisi di una degenerazione che parte da lontano.

Conciliazione

Terenzio, il grande commediografo latino,  fu autore sobrio e introspettivo. Controcorrente rispetto ai canoni del suo genere e diverso dal più noto predecessore – Plauto – rese le sue opere terreno fertile su cui seminare domande alle quali cercare risposte. Comico e morale, ma non per questo pedante: delicatezza è l’aggettivo appropriato per descrivere un poeta cui poggiava la propria visione sull’humanitas – concetto latino derivato dal greco philanthropia: la solidarietà tra gli uomini è il modo per rendere l’esistenza meno dolorosa.
La riflessione etica è il fine principale del lavoro di Terenzio, ideatore di commedie tanto complesse perché esigenti: allo spettatore è chiesto di guardarsi dentro e di riflettere.
Una rilevante fetta dei suoi lavori vede il rapporto verticale come nucleo portante delle vicende. Terenzio, tuttavia, è il primo a parlarne sorvolando gli stereotipi – già presenti al tempo, come oggi – della rottura totale e inconciliabile: attenua il conflitto generazionale ad una consegna di testimone che i figli richiedono nel passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta.
Negli “Adoelphe” (“I fratelli“) esprime tutti i suoi timori per il sistema educativo patriarcale dei tempi, basato sulla paura incussa dal genitore, mentre delinea un idilliaco rapporto padre-figlio, facente forza sull’indulgenza, l’apertura al dialogo e l’amore, fondamentale per una crescita serena e per la formazione personale.
Non scontro, ma incontro. Non urla, ma dialogo. Non paura, ma amore. A duemila e più anni di distanza, quello di Terenzio resta ancora un modello da cui trarre insegnamento.

Homo sum: humani nihil a me alienum puto.
Sono un uomo: niente di ciò che è umano considero estraneo a me.

Degenerazione

Agli antipodi dell’ottica di Terenzio, il Novecento è un panorama problematico che traccia un solco insanabile: si fa netto il distacco tra genitori e figlio, frutto dell’insediamento dell’intrinseco disprezzo condiviso. Si parla, a tal proposito, di degenerazione nella prosecuzione del destino familiare: i figli non sono più come i padri vorrebbero, non si fanno eredi di una trasmissione culturale e tradizionale. Ciò che li lega è il solo vincolo sanguigno. Questo l’inizio di una prima grande frattura tra le diverse generazioni.
Quella dello scrittore boemo Franz Kafka è tra le voci influenti ad esprimersi sulla questione. Nella sua “Lettera al padre” è rappresentata l’immagine iconica del protagonista di un intero secolo –  ma che trova origine già nell’Ottocento: il figlio che si allontana dalle sorti familiari non essendo più in grado di seguire i dettami materni e vedendo nel padre – con cui sempre è in dissidio – un uomo deluso, minaccioso e mortificante. Ogni legame tra genitore e figli sembra essersi spezzato. I figli sono orfani dei loro genitori già dal secolo scorso.

Ti pareva che stesse più o meno così: tu hai lavorato sodo per tutta una vita, hai sacrificato ogni cosa per i tuoi figli, soprattutto per me; […] tu non pretendevi per questo la mia gratitudine, la conosci, “la gratitudine dei figli”, ma almeno un po’ di gentilezza, qualche accenno di compassione, e invece io mi sono sempre rifugiato davanti a te, in camera mia, tra i miei libri, coi miei amici stravaganti, nelle mie idee eccentriche; […] inoltre non ho mai avuto il senso della famiglia, non mi sono mai occupato del negozio e delle altre cose tue, la fabbrica l’ho addossata a te e poi ti ho abbandonato, ho dato man forte a Ottla’ nella sua testardaggine, e mentre per te non muovo un dito (non ti prendo nemmeno i biglietti per il teatro), per gli amici faccio tutto.

 

Incomunicabilità

Italo Svevo ne “La coscienza di Zeno” dà vita a un uomo “malato” che racconta, tra le altre cose, alternando lucidità e follia, il rapporto problematico con il padre: costui non apprezza il figlio, è disgustato dalle sue stupide velleità letterarie a fronte della responsabilità di gestire l’azienda commerciale di famiglia. Zeno, a sua volta, ritenendosi superiore intellettualmente rispetto al papà, non affronta con lui mai argomenti più intimi. Il loro è un rapporto ostacolato da silenzi ed incomprensioni. Il malinteso emblematico e irreparabile è tragicamente l’ultimo: mentre Zeno sta tenendo fermo il padre a letto in punto di morte, riceve uno schiaffo. Non saprà mai il motivo di tale gesto, se frutto di una punizione o di un’involontarietà. Fino alla fine dei suoi giorni l’interrogativo non troverà risposta.
Un altro momento toccante e significativo quello che vede il padre, qualche giorno prima di spirare, seduto silenziosamente, quasi privo di coscienza, a mirare le stelle. Questo passaggio, se letto in chiave non solo letterale, è riassunto triste e preciso del principale dilemma che affligge i rapporti verticali: quello dell’incomunicabilità.

Improvvisamene si volse a me, sempre restando eretto sul busto: – Guarda! Guarda! – mi disse con un aspetto severo di ammonizione. Tornò subito a fissare il cielo indi si volse di nuovo a me: -Hai visto? Hai visto? – Tentò di ritornare alle stelle, ma non poté: si abbandonò esausto sullo schienale della poltrona e quando io gli domandai che cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m’intese ne ricordò di aver visto e di aver voluto ch’io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre.

Un figlio d’oggi

Marco Marsullo è uno scrittore e giornalista napoletano che, nonostante abbia varcato solo la soglia dei trentacinque, da oltre dieci anni è attivo con le sue pubblicazioni – tra libri editi Einaudi, Rizzoli e Laterza e collaborazioni da editorialista su importanti testate quali Il Corriere del Mezzogiorno e La Gazzetta dello Sport.
Basandoci su “I miei genitori non hanno figli“, suo libro pubblicato un lustro fa, gli abbiamo chiesto di parlarci delle tematiche affrontate, quelle di cui si dibatte, come visto, da sempre: il rapporto familiare,  il decisivo momento della scelta per il futuro, il peso delle aspettative, i problemi di comunicazione tra genitori e figli – causa dell’orfanità.

 

Orfanità

Il protagonista della storia è un diciottenne che, come chiunque lo sia stato, si ritrova nella fase della vita in cui gli viene chiesto di decidere la strada per il proprio futuro.
Alla confusione e alla paura di ritrovarsi difronte ad un incrocio decisivo, si aggiungono le pretese dei genitori sicuri che il figlio sappia già cosa fare e che abbia le risposte per tutto.
Un libro che sfata – con comicità e tenerezza – il mito dei genitori perfetti e che rivendica a pieno titolo la difficoltà del mestiere dei figli. Una storia che, a suo modo, racconta quella di tutti noi. Qual è quindi, oggi, il rapporto “di orfanità” che i figli hanno con i genitori? Così si è espresso Marco Marsullo alle nostre domande:

Immagino che siamo molto dei nostri genitori, negli imprinting, in scene che abbiamo introiettato senza neanche ricordarle. Qualsiasi modo che hanno avuto di educarci si riflette nelle nostre scelte adulte e nei nostri rapporti, specie quelli sentimentali. I genitori sono genitori tutta la vita, anche quando i figli hanno quarant’anni. Ogni scelta che si fa la si fa, anche tacitamente, per rendere felici loro. È una trappola, per certi versi, talune volte diventa anche un meccanismo malsano che si innesca inconsapevolmente in un figlio. Le aspettative dei genitori, se non si ha un carattere forte e chiare le proprie passioni, i propri obiettivi, finiscono per essere dei macigni che ci portiamo sulle spalle per tutta la vita, e che condizionano la nostra esistenza. Ognuno ha la sua strada, per molti genitori è difficile comprendere quando, quella strada, è diametralmente opposta alla loro. Spesso si è molto diversi dai propri genitori, è il mio caso per esempio. Diverse passioni, diverse sensibilità, diversa capacità di esternazione. A volte lo facciamo per ripicca, quasi per reazione, e ci ritroviamo a desiderare l’opposto di ciò che ci hanno offerto con l’esempio e l’educazione. Credo che l’identità di ogni essere umano sia unica, alla fine, perché siamo un mondo, ognuno di noi. Un mondo differente e complicatissimo. Il conflitto generazione è insto nel rapporto genitori – figli, inevitabile e necessario, forse. Le epoche diverse durante le quali si cresce, soprattutto nei tempi moderni, quando dieci anni fanno un’enorme differenza di progresso tecnologico ed etico, creano giocoforza delle fratture generazionali. I figli ne sono responsabili, involontari, tanto quanto i genitori. È come un ecosistema dentro al quale le due figure vivono in un equilibrio di conflitto. [Relativo alle “parole perdute per sempre”, citando Svevo, e ai rimpianti che i figli provano per i genitori] Non si possono recuperare ed evitare di perderle. Anche questo processo sembra inevitabilmente far parte del rapporto con i propri genitori. Per questo il tempo è una canaglia. Ma più del tempo, il responsabile è proprio quel conflitto generazionale. I rimpianti relativi ai nostri genitori, secondo me, sono sempre relativi al tempo che non gli abbiamo dedicato. Specie se la colpa è loro. Il lascito di dolore che porta la morte di un genitore con il quale non si è stati abbastanza tempo insieme è un colpo ferale per il destino di un figlio. Forse non li ringraziamo mai per la cosa più grande: la vita. Senza di loro, pure senza i loro disastri con noi, non vivremmo questo balletto incantevole e doloroso che è la nostra esistenza. Più di così?”

Ci sono due persone da ringraziare. I miei genitori. Loro li ringrazio per avermi fatto capire, con le loro mancanze e le fragilità tutte umane, come inclinare il viso a favore di vento per godermi la brezza delle cose.

I miei genitori non hanno figli“, Marco Marsullo.

 

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