Il termine “gelosia” deriva dal greco “zelos” e significa “brama, desiderio”. Si tratta di un’emozione complessa, biologicamente predeterminata ed insorge di fronte alla minaccia reale o immaginaria di perdere un legame. Oltre che avere una funzione etologica ed essere determinata da sentimenti positivi, come l’amore, e da bisogni egoistici, come la necessità di sicurezza, talvolta le sue manifestazioni possono essere chiaramente psicopatologiche, come nel caso dell’ossessione e del delirio.
La gelosia è un sentimento che nasce insieme all’uomo: per quanto mitigata dal progresso culturale e intellettuale, che educa i sentimenti umani attraverso l’azione moderatrice della ragione, nessuna evoluzione, nessuna pretesa di civiltà ha potuto cancellare definitivamente quello zelos che, spesso, si traduce in desiderio di possesso e controllo. Già molte delle più antiche produzioni letterarie hanno come oggetto questa complessa e multiforme emozione: basta pensare all’Ode 31 di Saffo, poi tradotta e rielaborata da Catullo, meglio nota, infatti, come Ode della gelosia. Sembra che nessuno possa esserne immune al punto che, secondo la mitologia classica, perfino gli dei ne erano affetti: i cento occhi del custode Argo, posto da Era a guardia della ninfa Io di cui Giove era pazzamente innamorato, sono i cento occhi sospettosi attraverso cui la dea cerca di controllare i capricci amorosi del marito. Sono l’allegoria dei cento occhi della gelosia, che mai si chiudono tutti insieme affinché nessun dettaglio gli sfugga, incessantemente costretti ad un’operazione di controllo che non conosce tregua e che sfinisce chiunque non sappia porre limiti all’angoscia del sospetto.
Il dubbio è, infatti, il combustibile che meglio alimenta il fuoco della gelosia. Dapprima insignificante scintilla, gradualmente si gonfia fino all’esasperazione, tramutandosi in un veleno che corrode l’animo di chi ne è colpito: quindi la vittima diventa carnefice perché l’ossessione del sospetto è una gabbia capace di imprigionare tanto chi la esercita quanto, soprattutto, chi la subisce. Se è vero che non si muore per amore, certamente si può morire, perfino uccidere, per gelosia: il fatto che il volto di un assassino è, spesso, quello di una persona amata è un’amara e diffusa realtà, oggi come in passato. È l’innamoratissima moglie Deianira, rosa dalla gelosia, a causare, seppur ignara, la morte dell’invincibile Ercole. Inoltre non è un caso se le manifestazioni patologiche della gelosia sono designate come “sindrome di Otello”, dal nome del famigerato protagonista dell’omonima tragedia shakespeariana: il Moro arriva ad uccidere la fedele e ingenua moglie Desdemona, profanando le lenzuola nuziali, a causa di un infondato sospetto instillato dal malefico Iago. La celeberrima scena, che in inglese attiva un’implicita metafora sessuale (“to die”: “morire”, ma anche “provare l’orgasmo”) che drammatizza ulteriormente la situazione, esplicita il nesso amore-morte e completa la metamorfosi del valoroso condottiero barbaro in una creatura ferina, incapace di controllare gli istinti più bestiali. Tuttavia i dubbi in lui infusi da Iago, abile oratore dal linguaggio crudo ed efficace basato sul meccanismo della visualizzazione, sono in realtà il riflesso dell’insicurezza interiore di Otello stesso. Secondo Freud, inoltre, la gelosia patologica può essere la manifestazione della repressione di un istinto all’infedeltà.
Popolato da amore, gelosia, possessività, oltre che da molti altri sentimenti umani, è il mondo vorticoso e caotico dell’Orlando Furioso, storia del paladino pazzo per amore e gelosia, raccontata da Ariosto. Lo spazio ludico del racconto è, però, la dimensione virtuale in cui l’autore stesso esorcizza la gelosia che prova nei confronti della donna amata. Più volte Ariosto, trascinato dalle passioni alla stregua dei suoi personaggi, si paragona ad essi, per la maggior parte affetti dal morbo della gelosia. L’unico ad impazzire, al punto che il suo senno emigrerà sulla luna, è Orlando: attraverso una sottile analisi psicologica del paladino, l’autore racconta con lirismo venato da punte tragiche la fenomenologia di questo controverso sentimento. Nell’opera, tuttavia, la gelosia è vista come intrinseca alla natura umana: solo l’eccesso porta alla follia. Ariosto, che conduce i fili della narrazione con magistrale distacco ironico, invita il suo pubblico ad accettare il sentimento della gelosia e, soprattutto, a dominarlo: tutte le passioni umane devono essere vissute con leggerezza e filtrate attraverso una distanza raggiungibile solo attraverso uno sguardo consapevole e auto-ironico.