Esploriamo le reazioni al cambiamento climatico tra giraffe nane e accordi internazionali

Ogni specie si adatta al cambiamento climatico in modo differente e alcuni esemplari di giraffa nana ne sono un esempio.

Il clima sta cambiando e in alcune specie animali si manifestano dei cambiamenti come risposta. L’uomo non può essere da meno: per correre ai ripari gli Stati si sono dati delle regole per limitare i danni nel minor tempo possibile.

Nani tra i giganti

La Giraffe Conservation Foundation porta all’attenzione della comunità scientifica un fatto davvero insolito: in Namibia e Uganda sono stati avvistati degli esemplari di giraffa alti “appena” tre metri. Tenendo conto del fatto che l’altezza media della specie si aggira attorno ai cinque metri siamo di fronte ad una forma di nanismo davvero particolare, un fenomeno mai osservato in natura nella specie in questione. Si tratterebbe di una forma di displasia scheletrica che compromette la crescita ossea dell’animale che se ne ritrova affetto, rendendolo più vulnerabile rispetto agli altri membri del branco, dal momento che gli effetti della displasia colpiscono in modo particolare le gambe e non il collo, che invece rimane della consueta lunghezza. Secondo gli scienziati che hanno notato e riportato queste novità tra le giraffe una delle cause scatenanti può risiedere nel cambiamento climatico. Non è stato specificato se si tratti di una conseguenza negativa legata al riscaldamento globale, ma potrebbe anche essere un modo in cui le giraffe si stanno adattando a un clima differente da quello a cui sono abituate.

Questione di adattamento

Abbracciando l’ipotesi che la statura delle giraffe si stia riducendo come risposta ai cambiamenti del clima, si potrebbe prendere spunto da questo fatto per suggerire di accelerare le reazioni che anche la razza umana dovrebbe avere per fronteggiare il riscaldamento globale. Nel nostro caso non si tratterebbe tanto di adattarsi al cambiamento quanto invece di prendere provvedimenti seri per riparare un ingranaggio di cui stiamo causando un progressivo arrugginimento, anno dopo anno. La comunità internazionale sta cercando ormai da trent’anni di coordinare i propri sforzi per mitigare gli effetti che il nostro modo di vivere con le conseguenti emissioni sta causando al pianeta. I principali strumenti da utilizzare a riguardo sono ovviamente convenzioni e trattati. Storicamente importante è dunque citare il famosissimo protocollo di Kyoto (1997): il suo ruolo è centrale poiché si è ricorsi per la prima volta ad un trattato che imponesse legalmente alle parti di ridurre le emissioni del 5% rispetto a rilevazioni fatte nel 1990 entro dati momenti storici.  La prima finestra di tempo per l’adempimento intercorreva tra il 2008 e il 2012, mentre la seconda sarebbe iniziata nel 2013 per concludersi nel 2020. L’uso del condizionale non è casuale: infatti il protocollo di Kyoto si è rivelato un flop quasi totale per una serie di ragioni. In primis gli Stati Uniti non hanno mai aderito all’accordo, escludendo di fatto l’impegno a ridurre le emissioni di uno dei primi Stati nella classifica delle emissioni. In secondo luogo, diversi Stati (Russia, Giappone, Nuova Zelanda) hanno deciso di non prendere parte al secondo periodo e altri ancora (Canada) si ne sono ritirati. Attualmente solo l’Unione Europea rimane come caposaldo occidentale del protocollo, che in ogni caso attualmente vale per circa il 14% delle emissioni mondiali.

Gli accordi di Parigi

Forse presagendo il poco successo di cui si è appena parlato, gli Stati si sono dati delle nuove regole nel 2015 a Parigi. Il summit ha avuto grande risonanza mediatica ed è stato caratterizzato da un cambio di obiettivi. Non si è più infatti considerato come obiettivo la riduzione delle emissioni, ma il contenimento dell’aumento della temperatura media del globo per riportarla ai livelli precedenti l’epoca industriale. Questo significa solo indirettamente che andranno ridotte le emissioni, ma tanto basta per imporre una diminuzione che va dal 40 al 70% di esse entro il 2050. Tali obiettivi, in vigore dal 2016, vanno rivisti ogni 5 anni e resi di volta in volta più ambiziosi. Il trattato coinvolge i paesi che emettono il 55% dei gas serra, diventando il primo ad avere portata globale nel contrastare i cambiamenti climatici. Anche gli accordi di Parigi presentano purtroppo le loro criticità, dal momento che stando agli ultimi rilevamenti pochi degli obiettivi prefissati sono stati finora raggiunti. La prossima conferenza sul clima è prevista nel novembre di quest’anno a Glasgow e sarà un momento cruciale per capire in che direzione decideremo di muoverci, sperando in un evolversi positivo delle scelte degli Stati.

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