Come si fa, anche alla luce del compromesso, a mantenere fede ai propri principi? È in questo che, in politica come in altri aspetti della contemporaneità, sta la rivoluzionarietà – di un partito, di un individuo, di un’idea.
Il termine “compromesso” non ha un significato univoco e incontrovertibile. Ha due fondamentali accezioni: la prima è spiccatamente negativa, e si riferisce ad una situazione di rischio o di danno (quando si dice, “una reputazione compromessa”). La seconda, invece, denota una condizione che lascia insoddisfatti: lo si intuisce già dall’etimologia del sostantivo, che viene dal latino cum + promissus, “obbligato insieme” in nome di un patto, un progetto comune. L’immagine è quella di soggetti lontani che si avvicinano fino a congiungersi. Anche in questo caso permane un timbro negativo, poiché, per molti, fare anche solo un passo verso l’altro significa snaturarsi, accettare l’idea che non esista solo la propria verità, né un solo metodo per realizzarla. Al contrario, pensare in maniera plurale, conciliare la propria visione con altre apparentemente incompatibili, è un requisito fondamentale per una modernità fatta di scambio e confronto continui.
La sconfitta di Le Pen in Francia è frutto di un compromesso
Notizia dell’ultim’ora: l’alleanza di estrema destra, composta dal Rassemblement National e dai Républicains di Éric Ciotti – espulso dal suo stesso partito una volta schieratosi con Le Pen e Bardella – è arrivata dietro i macroniani di Ensemble, classificatisi secondi, ma soprattutto dietro il Nouveau Front Populaire, capeggiato da Jean-Luc Mélenchon, che a sorpresa otterrà il numero più alto di seggi nella nuova Assemblée Nationale. Questi risultati hanno del clamoroso, soprattutto se si considera che, fino a pochi giorni fa, il timore, per Macron quanto per il centro-sinistra, era di vedere la Francia investita da un’ondata nera, accreditata come certa da tutte le proiezioni dell’ultima settimana: restava solo da capire se avrebbe completamente stravolto l’assetto politico, con una vittoria assoluta e schiacciante di Le Pen e compagni, o se avrebbero ottenuto “solamente” una maggioranza relativa, che non avrebbe assicurato a Jordan Bardella l’incarico da Primo Ministro ma si sarebbe comunque tramutata in un aumento consistente del peso dell’estrema destra all’interno del nuovo parlamento, a discapito di tutti gli altri schieramenti.
La sconfitta del Rassemblement National è frutto di un compromesso. La carta decisiva, per Macron e Mélenchon, è stata la strategia della “desistenza“: entrambi, infatti, al secondo turno, hanno ritirato i candidati delle rispettive liste che avevano precedentemente ottenuto meno voti. Non si è trattato, dunque, di una vera e propria alleanza fra la sinistra e il partito del Presidente, ma di un accordo temporaneo sì vincente, ma anche fragile. Non sarà facile, infatti, trovare una maggioranza governativa, poiché le forze politiche in questione sono profondamente diverse per assetto ideologico e programma elettorale. Si parlava di “cohabitation” fra Macron e Bardella; la sensazione è che, per sbloccare la formazione di un nuovo parlamento, sarà necessaria sempre una cohabitation, ma con Mélenchon, soluzione altrettanto sgradita al Presidente. Per ora ha vinto la scommessa delle elezioni anticipate; chissà che, dopo questo momentaneo compromesso, non tirerà fuori un altro asso nella manica per arginare anche il suo “alleato”.
In UK i laburisti sono tornati al potere dopo quattordici anni
Pochi giorni prima delle elezioni francesi, la destra ha perso anche nel Regno Unito. Dopo quattordici anni di governo conservatore e cinque Premier, i britannici hanno deciso di mandare a casa i Tories e affidare ai laburisti di Keir Starmer la missione di risollevare il Paese.
La vittoria dei Labour ha molteplici spiegazioni. Senza dubbio, dalla Brexit in poi, la gestione politica dei conservatori è stata un susseguirsi di scandali e magre figure da parte dei leader che si sono avvicendati alla guida del partito: le dimissioni di David Cameron dopo la clamorosa vittoria del “Leave”, la caduta in disgrazia di Theresa May per aver fallito i negoziati con l’Ue, Boris Johnson e i festini durante la pandemia, Liz Truss con i suoi quarantaquattro giorni da Primo Ministro – Churchill si sarà rivoltato nella tomba – e, ultimo, Rishi Sunak, che non è riuscito a riabilitare il nome dei Tories nell’opinione pubblica britannica. La sua era una sconfitta annunciata, ma la debacle è stata totale, la peggiore nella storia recente del Partito Conservatore.
Date queste premesse, si può dire che Starmer abbia avuto tutto sommato gioco facile. Una vittoria così schiacciante, tuttavia, non era scontata: in mancanza di un’alternativa convincente ai conservatori, lo scenario avrebbe potuto essere ancora più eclatante, magari con un’ulteriore avanzata dei riformisti di Nigel Farage, che hanno comunque ottenuto un risultato importante, togliendo molti voti a Sunak. Inoltre, nonostante il successo elettorale, Starmer non è così popolare nella sinistra britannica: è stato infatti criticato per essere troppo moderato, in poche parole per essere eccessivamente incline al compromesso. Sta di fatto che l’ultima volta i laburisti, sotto la guida del ben più radicale Jeremy Corbyn, nonostante gli accordi per la Brexit con l’Ue fossero ancora in alto mare, le elezioni le avevano perse, e a Downing Street ci era andato Boris Johnson. In ogni caso, vedremo come Starmer gestirà la crisi economico-sociale che ha compromesso la popolarità dei suoi avversari.
Aldo Moro, fautore e vittima del “compromesso storico”
Spostandoci in Italia, il compromesso più noto nella memoria degli italiani è sicuramente il compromesso storico: è la formula con cui si designa l’accordo raggiunto fra Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, ed Enrico Berlinguer, leader del Partito Comunista Italiano, volto a formare una grande coalizione di governo che avrebbe visto per la prima volta la partecipazione dei comunisti, seconda forza politica del Paese subito dopo la DC.
La soluzione fu proposta proprio da Berlinguer, dopo il golpe in Cile che vide la caduta del governo Allende: il leader del PCI aveva compreso la necessità di una collaborazione fra le forze popolari comuniste e socialiste con quelle di ispirazione cattolico-democratica, sulla base di un consenso di massa tanto ampio e solido da poter resistere agli attacchi delle forze più estremiste, che altrimenti avrebbero continuato ad alimentare la cosiddetta “strategia della tensione”. Il progetto di Berlinguer non ebbe mai l’approvazione né del socialista Bettino Craxi, che intravvedeva il rischio di una marginalizzazione del suo partito, né di Giulio Andreotti, principale esponente dell’ala destra dei democristiani, nonostante Berlinguer proclamasse pubblicamente l’indipendenza dei comunisti italiani dall’URSS e di voler rendere il suo partito un riferimento per le istanze democratiche e popolari dell’Occidente.
Berlinguer trovò subito appoggio, invece, nell’ala sinistra della DC e nel suo uomo-chiave, Aldo Moro. Oltre che dalle sopracitate forze politiche, tuttavia, l’accordo fu osteggiato anche dall’estrema sinistra, che mai avrebbe accettato l’idea di un accordo compromissorio con i democristiani. Le resistenze furono così ardue che il compromesso storico non vide mai luce; l’atto che portò ad abortire definitivamente il progetto fu il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Il suo corpo fu ritrovato il 16 marzo 1978 all’interno di una Renault 4 rossa, in quel famoso incrocio fra via delle Botteghe Oscure (sede del PCI) e piazza del Gesù (sede della DC), proprio nel giorno del primo dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti.
Poco tempo dopo, i comunisti tolsero la fiducia al governo e tornarono all’opposizione; sei anni dopo, nel 1984, morì anche Enrico Berlinguer, e dopo di lui il PCI non ha mai più ritrovato una guida altrettanto carismatica, né è mai riuscito ad andare al potere prima del suo scioglimento, avvenuto nel 1991.