Quando pensiamo a una lingua artificiale il collegamento con la lingua ideata da Tolkien si rivela essere quasi spontaneo. Ma una concezione di lingua “inventata” si aveva anche nel Medioevo.
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Le qualità che Dante attribuiva a una lingua artificiale e l’idioma inventato da Tolkien quasi ci proiettano in una dimensione di misticismo e fascino.
L’artificio linguistico nel Medioevo
Proprio come la lingua di Tolkien, già in età medievale si aveva una percezione di lingua artificiale, una lingua cioè inventata dall’uomo per scopi precisi, funzionale a una migliore comunicabilità, o magari per motivi artistici. Dante e i suoi coevi infatti attribuivano erroneamente al latino una genesi sublime, difficilmente imitabile e artificiale, legata al duro e raffinato lavoro dei doctores antichi. Era ritenuta la lingua “per eccellenza”, l’unica a cui si potesse propriamente attribuire il termine di “grammatica”, suo sinonimo, l’unica che avesse delle vere e proprie regole, delineate e ben definite in appositi manuali e legittimate da una lunga tradizione letteraria. Si tratta di una lingua, il latino, immutabile, creata ad hoc e di conseguenza necessariamente “perfetta” e infallibile, una lingua ufficiale dai valori alti e artisticamente imparagonabili; la lingua di Cicerone, di Virgilio, la lingua dell’apprendimento universitario, delle artes, del diritto, della scienza. La lingua, infine, della Chiesa. E l’unica ragione per cui il Sommo Poeta al latino prediligeva il volgare – così come teorizza nel De vulgari eloquentia – consisteva nel fatto che quest’ultima lingua non solo era sentita come più naturale, e dunque più facilmente adottabile dagli autori, ma addirittura di origini divine: si credeva provenisse direttamente dalla confusio babelica narrata nella Bibbia. E nella medesima opera, Dante si era prefissato, esattamente come Tolkien, di creare una lingua artificiale che prendesse il meglio proprio da ogni volgare, realizzando in questo modo un perfetto idioma che risultasse nel miglior modo possibile efficace nella comunicazione e nella vita politica e allo stesso tempo naturale ed elegante nell’arte letteraria.
La torre di Babele, centroufologicotaranto.blogspot.com
Tolkien e il quenya
Qualcosa di simile alla tentata iniziativa di Dante cercò di farla Tolkien, riuscendo a dare luce a un così arduo progetto. La lingua artificiale da lui ideata venne pensata per fini artistici, anche se realizzata inizialmente per svago. Va infatti precisato che questa vena creativa che ha spinto lo scrittore a compiere una tale impresa non era uno stimolo originariamente funzionale alla stesura dei suoi romanzi, ma rispondeva a una sua pura, spontanea e travolgente passione per lo studio delle lingue e della loro natura. Esse trasmettevano in lui, infatti, un forte fascino, tanto che fin da fanciullo si cimentò insieme ai suoi compagni liceali nella creazione di una lingua in codice: da allora in poi non smise più di dedicarsi a quest’attività. E si ricordi pure che Tolkien non diede vita a una sola lingua, ma a circa una decina, prendendo spunto da greco, latino, e anche da molti altri idiomi come il finlandese.
Fra tutte le lingue artificiali, quella che sviluppò maggiormente e a cui si dedicò con più dedizione è il quenya. Iniziò questo suo lavoro negli anni 1910-1911 (e si pensi che la stesura de Il Signore degli Anelli iniziò più di vent’anni dopo, nel 1937), portandolo avanti sino alla sua morte. All’interno dei suoi romanzi, questa lingua viene attribuita ad alcune stirpi elfiche che migrarono verso la Terra di Mezzo, la regione fantastica dove si svolgono le vicende della narrazione. Il quenya sopravvisse però principalmente come lingua artistica e letteraria: venne presto soppiantato da un’ulteriore creazione tolkeniana, il sindarin. E questo è solo un minuscolo spunto dell’intera storia costruita attorno al quenya, aspetto questo che lo rende incredibilmente verosimile e realistico come lingua non solo grammaticalmente, ma anche storicamente. E ciò che forse più ci stupisce è che Tolkien cercò anche di realizzare una vera e propria cultura letteraria gravitante attorno a questa lingua che non si limitasse solo ai suoi romanzi, ma anche a componimenti in poesia del tutto originali, sino ad arrivare alla traduzione del Padre nostro e dell’Ave Maria in quenya.
Le peculiarità degli idiomi tolkeniani
Ma come esattamente il quenya prende ispirazione dalle altre lingue? E in cosa consiste la difficoltà nel creare una lingua artificiale? Realizzare una lingua non significa solamente prenderne una come modello e cambiare tutte le parole appartenenti al suo lessico in altre, ma anche stabilire delle regole fisse che la rendano unica e originale. Ma Tolkien è andato oltre a tutto questo, arrivando addirittura a creare nuovi caratteri grafematici. E come esempio visivo si può citare l’iscrizione sull’Unico Anello in uno dei tanti idiomi inventati dall’autore, il linguaggio nero, la lingua di Sauron, principale antagonista della trilogia:
Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul, ash nazg thrakatulûk, agh burzum-ishi krimpatul.
“Un anello per domarli, un anello per trovarli, un anello per ghermirli e nell’oscurità incatenarli”
Una volta dunque stabiliti i grafemi della lingua che rispondono a precisi gruppi o unità foniche, si passa alle regole generiche che tale lingua deve rispettare. Tolkien pensando al quenya ha optato per una lingua flessiva, per cui le desinenze delle parole possono per l’appunto flettere, come in italiano, conferendo alla parola ad esempio il numero o il genere. Dal finlandese poi, lo scrittore ha ripreso il complesso uso dei morfemi che tendono ad accumularsi all’interno di anche solo una parola, con l’aggiunta di suffissi o prefissi. Ad esempio i possessivi si legano alla fine delle parole, in quanto enclitici. Dal greco, invece, ha ripreso il particolare uso dell’articolo e la presenza di alcuni tempi e modi verbali come l’aoristo e l’ottativo. Foneticamente, infine, l’influsso maggiore l’ha subito dal latino e dalle lingue romanze, in particolare da spagnolo e italiano. Si tratta insomma di un’unica lingua che ne racchiude di più al suo interno, una lingua che prende spunto da tutte le altre. Ed è così quindi che Tolkien, dimostrando una grande creatività e capacità degna di un vero linguista, riuscì in un certo qual modo a realizzare ciò che Dante aveva solo teorizzato.