Le buone intenzioni manifestate in passato si sono arenate e ancora una volta la Conferenza delle Parti si conclude senza risultati concreti
Caratterizzata fino alla fine da profonde spaccature tra paesi inquinanti e paesi minacciati dalla crisi climatica, tra nazioni industrializzate e nazioni in via di sviluppo, la COP25 non ha soddisfatto le aspettative. Molte decisioni sono state rimandate al 2020, in netto contrasto con la necessità immediata di un’azione forte per rispettare e rinnovare gli impegni presi in passato. Ripercorriamo allora le tappe degli accordi e delle conferenze internazionali per capire perché è così problematico l’aver posticipato alla COP26 di Glasgow, quindi di un anno, le decisioni.
Protocollo di Kyoto: l’origine della questione
Dal 2 dicembre 2019 al 15 dicembre si è svolta a Madrid la 25^esima Conferenza delle Parti dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), abbreviata in COP25. Chiamata anche Summit della Terra, è una conferenza dove i rappresentanti delle diverse nazioni del mondo si incontrano per discutere dei risultati ottenuti e degli impegni da prendere per ridurre l’emissione dei gas serra e in generale affrontare l’emergenza climatica. Il primo trattato ambientale internazionale sono gli Accordi di Rio, esito della conferenza tenuta nel 1992 a Rio de Janeiro. Il risultato ad oggi più noto, però, è il Protocollo di Kyoto, redatto l’11 novembre 1997 ed entrato in vigore nel 2005 grazie alla firma della Russia. Per diventare attivo, infatti, c’era bisogno che fosse firmato da almeno 55 nazioni e che queste rappresentassero almeno il 55% delle emissioni globali di gas serra. Il periodo di validità durava fino al 2012 ed entro quel periodo i 192 stati che nel tempo si sono uniti all’accordo avrebbero dovuto ridurre le proprie emissioni rispetto ai valori registrati nel 1990. Ogni paese aveva, in realtà, un proprio obiettivo specifico, con un impegno medio pari alla riduzione del 5% delle emissioni: l’Italia, ad esempio, firmò l’impegno a ridurre i gas inquinanti prodotti del 6,5%. In merito al successo delle politiche intraprese dal nostro paese ci sono polemiche e dubbi, dettati in parte da letture sbagliate ed in parte alla controversa formulazione del Protocollo stesso. Confrontando le emissioni del 2012, il calo è stato di più dell’11% (più del 14% tenendo conto della quota riassorbita dalle foreste e aree verdi), ma se si fa fede alle parole del Protocollo, occorre guardare al quinquennio 2008-2012. In tal caso, la media annua rimarca un calo solo del 4,5%. La situazione peggiora poi se si adotta il metodo di rendicontazione dell’Agenzia europea per l’ambiente o se si attua il controverso metodo dei “crediti” previsto dal trattato originale: se un paese avesse ottenuto risultati migliori di quelli per cui aveva firmato, era autorizzato a cedere dei crediti ai paesi che avevano fallito nell’impegno, nell’ottica di far quadrare comunque il bilancio complessivo.
Gli accordi di Parigi: la storia sin qui
Il Protocollo ha esteso gli impegni a un secondo periodo (fino al 2020) nel 2013 con gli accordi di Doha, anche questi abbastanza discussi, per poi raggiungere gli Accordi di Parigi, risultato della COP21 del 2015. L’evento fu un caso mediatico forte: per citare un fatto, perfino Papa Francesco si interessò alla questione tanto da scrivere un’enciclica, intitolata Laudato si’, con l’intento di influenzare in positivo la conferenza. L’obiettivo era quello di stipulare impegni vincolanti per gli stati membri, fissando l’obiettivo di rendere la società umana a “emissioni zero” entro la metà del secolo e di limitare l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2°C rispetto all’era pre-industriale. Inoltre, erano previste revisioni migliorative ogni cinque anni, così da tenere d’occhio i risultati ottenuti, spronare i paesi rimasti indietro e alzare sempre più l’asticella così da raggiungere al più presto gli obiettivi. Si somma poi uno stanziamento annuo di 100 miliardi di dollari fino al 2020 per supportare i paesi in via di sviluppo, così da garantire da subito una crescita sostenibile, e ai quali l’Italia ha deciso di contribuire con 50 milioni all’anno. Infine, elemento chiave degli accordi fu la richiesta di trasparenza e flessibilità. Anche stavolta i 196 paesi firmatari si dichiararono a favore di un impegno forte, riuscendo a far entrare in vigore gli accordi già nel 2016, ma da allora i problemi sono stati molti e i risultati discutibili. Gli Stati Uniti guidati da Trump sono usciti dall’accordo, gli stati orientali in forte crescita come India e Cina continuano a puntare sul carbone per saziare la richiesta interna di energia e come sottolinea lo studio Carbon Budget 2019, nonostante l’uso del carbone sia diminuito, le emissioni di CO2 annuali sono in crescita. A dire la verità, come risulta dallo studio Brown to green, pubblicato da Climate Transparency, nessuno dei paesi membri del G20, nemmeno l’Italia, sta rispettando gli obiettivi fissati. Se si pensa che il gruppo è responsabile di circa l’80% delle emissioni globali di gas climalteranti, la situazione è tragica. Lo studio non è clemente, e non chiediamo che lo sia, con l’Italia, rimproverando la mancanza di strategie a lungo termine, la dipendenza troppo elevata dai combustibili fossili e suggerendo di eliminare le sovvenzioni ai combustibili fossili entro i prossimi 5 anni, introducendo magari anche una carbon tax.
Il seguente video, realizzato dalla NASA, illustra l’andamento della temperatura media globale, dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri. Si osserva chiaramente l’impennata avuta negli ultimi decenni.
Il tragico fallimento della COP25
La conferenza tenuta a Madrid a inizio dicembre avrebbe dovuto rispondere a molte delle questioni controverse e rimaste in sospeso dal passato, ma purtroppo non è stato così. Il problema principale è stato lo scontro tra le diverse realtà in gioco: paesi industrializzati che non hanno rispettato i propri obiettivi, paesi un tempo in via di sviluppo e che ora sono in forte crescita che chiedono di considerare le vecchie condizioni, stati insulari minacciati dall’innalzamento dei mari che si battono per ricevere sussidi e risarcimenti… Ma dobbiamo anche tenere conto dell’evidente distacco fra la spinta dal basso di attivisti e comuni cittadini che vorrebbero fare qualcosa, in prima linea i giovani del movimento Fridays for Future, e, dall’altro lato, la lentezza politica nel prendere decisioni concrete. Perfino le parole utilizzate, come fa notare un articolo a riguardo su Focus.it, sono emblematiche circa lo spirito della conferenza: i rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) su “Suolo e cambiamenti climatici” e “Oceani e criosfera” sono stati registrati (noted), ma non accolti (welcomed). Da un lato si sono schierati gli stati insulari, guidati dalle Isole Marshall, riuniti nella AOSIS (Alliance Of Small Island States) e i loro sostenitori, tra cui l’UE. Dall’altra una coalizione guidata da Cina e Brasile, ma in cui figuravano anche l’India e l’Arabia Saudita. I primi hanno insistito sulla necessità di darsi obiettivi ambiziosi, di potenziare gli impegni precedenti e di tenere conto della mobilitazione civile, ma i secondi si sono battuti per garantire ai singoli stati la facoltà di decidere i propri impegni. Proprio i secondi, ovvero quelli dove l’economia è in forte crescita, si sono rifiutati di aumentare i propri sforzi, lamentandosi del fatto che i paesi industrializzati non avessero tenuto fede ai loro precedenti impegni e cercando di far valere le proprie condizioni pre-2020, così da continuare a ricevere finanziamenti. Per non parlare delle discussioni sui crediti, tra chi vorrebbe spendere quelli rimasti inutilizzati dal Protocollo di Kyoto, quindi ottenuti grazie anche a requisiti più facili da soddisfare, e chi addirittura vorrebbe un doppio conteggio degli stessi, sia per chi li ha ceduti ad altri stati, sia per chi li ha ricevuti. Una nota positiva c’è e la troviamo nella stipulazione del Gender action plan e nell’istituzione di un tavolo di lavoro per una Piattaforma delle comunità locali ed indigene, facendo così rientrare nelle discussioni gli impatti sociali sulle donne e sulle piccole comunità dei cambiamenti climatici. Ciò però non basta, perché come detto sono state rimandate le discussioni sulla decarbonizzazione, sul mercato globale dei crediti del carbonio, sulla cosiddetta “ambizione”, sul pagamento dei danni agli stati colpiti e minacciati dalla crisi climatica. Spetterà agli stati della COP26 a Glasgow affrontarli, ma così sarà passato un altro anno e la situazione sarà verosimilmente peggiorata, mentre ancora si fanno questioni sull’estensione temporale degli impegni, in bilico fra i 5 e i 10 anni.