Il personaggio televisivo Anthony Bourdain, ammazzatosi 6 mesi fa, resuscita grazie a Rizzoli, che ristampa un suo romanzo noir del 1997 (con qualche ritocco)
C’è sempre un momento in cui ci imbattiamo nelle fatidiche “memorie di scrittore morto suicida”. A volte è un mattone polacco che ha venduto due copie, sebbene l’editore sperasse di stuzzicare un fosco interesse attorno a un nome sconosciuto. Stavolta probabilmente l’opera in questione avrà più successo.
Rizzoli ha da poco ristampato Gone Bamboo, un noir scritto nel 1997 da Anthony Bourdain, personaggio a 360° dello show business. Attore, rockstar, chef televisivo e per l’appunto scrittore di alcuni romanzi gialli, impiccatosi l’8 giugno. Aggiungiamoci pure una relazione con Asia Argento, nota fino a un paio di anni fa come figlia d’arte un po’ dimenticata e tornata sulla cresta dell’onda in veste di paladina anti-molestie.
Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per un cadavere illustre, e la casa editrice milanese non se l’è lasciato sfuggire. Il primo colpo di marketing (anzi, black marketing) lo si trova nel titolo: non Un mestiere difficile, come nella traduzione originaria, ma Un paradiso da morire. Decisamente più azzeccato.
Black marketing, ovvero il fascino della morte violenta
Un vecchio slogan recitava: “Vivi al massimo, muori giovane e lascia un bel cadavere”
Bourdain aveva 62 anni. Non esattamente giovane, ma nemmeno decrepito. E non è nemmeno scomparso in maniera così spettacolare, come un James Dean schiantato a folle velocità. Una corda al collo e via. Ma tanto basta per creare un certo alone attorno a un romanzo già torbido di suo. La trama è questa: un sicario e sua moglie, stanchi della loro routine, decidono di partire per i Caraibi e cambiare vita. Progetti di sole, spiaggia e sesso che però saranno ostacolati dall’arrivo di un boss mafioso senza scrupoli. Il tutto impacchettato sotto la categoria “black comedy”.
Oltre al titolo, l’ufficio marketing ha pensato bene di inserire una nuova prefazione, un’annotazione firmata dallo stesso Bourdain nel 2000: “Volevo un eroe e un’eroina pigri, venali, lussuriosi e privi di qualità redentrici, proprio come mi sento io a volte”. Quasi fosse un’implicita ammissione di disperazione e presagio di una sorte inevitabile.
Un gioco di allusioni e rimandi tra realtà e finzione letteraria che il black marketing si è divertito a costruire. Allo scopo di coltivare quel fascino per la morte violenta e insolita che spesso sfocia nel morboso. Basta pensare a quei talk show dedicati all’approfondimento dell’approfondimento su casi di cronaca nera. Espedienti per dare in pasto al pubblico qualcosa che nella vita ordinaria, proprio perché destinata a un decadimento fisico altrettanto ordinario (i cadaveri quelli brutti), può solo immaginare.
E quel cliché del “male oscuro”…
Virginia Woolf, Ernest Hemingway, David Foster Wallace … e ora Anthony Bourdain. Senza fare confronti sui rispettivi pesi nella letteratura americana e mondiale, il filo conduttore è sempre la depressione, quel “male oscuro” che soffoca gli animi più sensibili e originali fino al suicidio.
Peccato che certe operazioni (di sciacallaggio?) abbiano l’involontario effetto collaterale di appiattire questo problema al campo della creatività. Lo scrittore malinconico e incapace di vivere, nonostante la realtà della sua condizione, diventa un cliché valido per promuovere la sua opera. Anche se, in un Paese profondamente cattolico, meglio non esibire una morte autoinflitta così sfacciatamente. Nella sintesi biografica riportata sul libro, si legge infatti che Bourdain “è scomparso”. Insomma, il suicidio funziona bene per tirare le vendite o alzare lo share ma guai a riconoscervi la libera scelta di un essere umano, e non per forza la sua fragilità.
Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia
Così scriveva Camus nel suo Mito di Sisifo. Tra l’altro anche lui trovò una morte violenta, in un incidente stradale. Deve aver venduto piuttosto bene.