Quante volte abbiamo sentito parlare di atteggiamento mentale? Quante volte ci viene criticato o lodato il nostro atteggiamento? Siamo sicuri di sapere veramente di cosa si tratta?
Vi siete mai chiesti come mai a volte ci comportiamo diversamente da come vorremmo?
Analizziamo insieme il concetto psicologico di “atteggiamento” per poi comprendere come e quanto questi influenzi il nostro comportamento.
Cos’è un atteggiamento
Nella comunità psicologia l’ultima definizione accettata di atteggiamento è quella di Maio & Haddock (2009) che lo descrivono come una “valutazione complessiva di un oggetto basato sulle informazioni cognitive, affettive e comportamentali”
In poche parole, si definisce atteggiamento la valutazione (positiva, negativa, neutra, indifferente e tutte le valutazioni intermedie) di un oggetto, che sia una persona, un evento o un oggetto materiale.
Questa valutazione viene elaborata e allo stesso tempo influenzata attraverso 3 canali:
- il canale cognitivo, adibito all’elaborazione delle informazioni, al pensiero, all’apprendimento, al ragionamento, alla risoluzione dei problemi, alle memorie e alle esperienze passate, all’attenzione e al linguaggio;
- il canale affettivo, adibito alle emozioni (Rabbia, Paura, Piacere, Dolore, Disgusto, Disprezzo e Sorpresa sub-divise a seconda della fusione di due o più emozioni primarie e/o dalla loro intensità) e all’umore (euforia, entusiasmo, irritabilità, depressione, malinconia, etc)
- e il canale comportamentale, adibito alla messa in atto, al modo di agire e reagire di un oggetto o un organismo messo in relazione o interazione con altri oggetti, organismi o più in generale con l’ambiente
Ce ne sarebbe un quarto che non è stato inserito in questa definizione ma che mi sembra doveroso citare:
- il canale percettivo, quel canale responsabile dell’elaborazione dell’informazione dal principio, dal momento in cui, consapevolmente o meno, il nostro corpo entra in contatto con i dati provenienti dall’esterno o dall’interno e li rielabora attraverso la trasformazione in segnali elettrici grazie ai nostri 5 organi sensoriali e alle cellule nervose presenti su tutto il nostro corpo.
Questi 4 canali sono tutti corresponsabili della formazione del nostro atteggiamento verso qualcosa o qualcuno.
Non penso sia difficile comprendere che, avendo appena consapevolizzato quante diverse componenti siano incluse in questa “elaborazione”, ci possano essere delle “confusioni”, dei momenti in cui il cervello per semplificare il tutto e renderlo accessibile alla nostra consapevolezza, sintetizza un po’ troppo non dandoci la possibilità di elaborare autenticamente un pensiero su qualcuno o qualcosa.
Queste confusioni/semplificazioni sono chiamati “bias“ (pron. ‘baiəs) ovvero delle distorsioni, causate dalla tendenza a creare la propria realtà soggettiva non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppata sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso.
Anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, queste distorsioni portano ad un errore di valutazione o ad una mancanza di oggettività di giudizio.
Quindi il mio atteggiamento predice il comportamento che avrò in relazione ad ogni oggetto?
Quasi mai
Nel 1934 Richard Tracy LaPiere, professore di Sociologia all’Università di Stanford dal 1929 al 1965, concluse che l’atteggiamento verso un oggetto corrisponde al comportamento solo in pochissimi casi (precisamente con un coefficiente di correlazione di 0,15 https://paolapozzolo.it/coefficiente-correlazione-statistica-pearson/)
Per dimostrarlo, girò gli Stati Uniti con una coppia di cinesi (in quel tempo il razzismo verso i Cinesi era piuttosto marcato) soggiornando per quasi due anni in 250 Hotel.
Durante questo viaggio solo un Hotel (il 251 esimo) si rifiutò di ospitarli.
Sei mesi dopo inviò un questionario ad altri 228 Hotel sparsi negli Stati Uniti chiedendo se sarebbero stati disposti ad accogliere due cinesi nel loro albergo. La risposta fu sorprendente: 118 hotel su 228 risposero negativamente.
L’esperimento è stato criticato e messo in discussione da molti studiosi della materia, ma questo a noi non interessa perché non siamo qui a guardare i numeri, bensì a ragionare su quello che attraverso l’evidenza si può concludere da questo esperimento:
l’atteggiamento e il comportamento non sono l’uno la causa dell’altro.
Questo, per esempio, ci aiuta a capire come Daenerys Targaryen, personaggio protagonista e narratore della saga fantasy Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R. R. Martin e della sua famosa trasposizione cinematografica de “Il Trono Di Spade”, dopo un lungo percorso di evoluzione durato per ben 7 stagioni, decide di mandare tutto a puttane comportandosi da tiranno utilizzando una gratuita violenza verso chi, direttamente, non le aveva fatto niente di male come i popolani di King’s Landing (Approdo del Re).
Daenerys mostra a parole, e a volte a fatti, una certa morale e ed una certa sensibilità per i poveri, per i maltrattati e per i deboli in generale.
Quello che però vive nel momento in cui si ritrova a tu per tu con Cersei Lannister, colei che non solo stava risiedendo su quello che Daenerys riteneva essere “il suo trono” ma aveva poco prima fatto uccidere crudelmente la sua più cara e longeva amica Missandei, è del tutto diverso rispetto al suo “usuale” modo di comportarsi.
Ciò che accade dentro la mente di Daenerys può essere compreso rileggendo il primo paragrafo: dentro di lei esperienze e comportamenti passati, credenze, consapevolezze, ed emozioni correlate all’oggetto “popolo inerme e privo di colpe” (definibili come ATTEGGIAMENTO) non sono bastate a placare la sua sete di vendetta, percepita nel momento in cui ha sentito di avere il potere di poter decidere le sorti di chiunque fosse lì intorno, potendo cavalcare un drago sputa-fuoco piuttosto arrabbiato.
Come questo si riporta nella vita di tutti i giorni?
Dopo aver studiato la “Psicologia degli Atteggiamenti” all’università sono state molte le domande che mi sono fatto sul genere umano.
Una tra queste è:
“Un atteggiamento razzista è sinonimo di comportamento razzista?”.
Oppure:
“Un comportamento evidentemente antirazzista
implica di conseguenza un atteggiamento NON razzista?”
Quello che ho capito è che, per esempio, se vogliamo persuadere qualcuno (per esempio, nel mio caso, a comprendere cosa significhi l’amore per le persone a prescindere dalla loro provenienza) dobbiamo considerare entrambi gli aspetti come due componenti fondamentali lungo lo stesso continuum.
Imporre (per esempio attraverso gli slogan NO AL RAZZISMO) o consigliare un certo tipo di comportamenti (anche se giusti e socialmente positivi) è funzionale ad un’evoluzione sociale ma non è detto che porti la singola persona a mettere in atto un cambiamento di pensiero.
Viceversa, comunicare verso le parti più profonde della persona e comprendere la vastità degli aspetti sopracitati può incontrare molte resistenze e questo richiede generalmente un maggiore dispendio di energie. Allo stesso tempo però potrebbe riuscire a convertire certi “bias” che stanno di fatto impedendo al genere umano di esprimersi nella sua totalità.
Questo non sarà necessario se non includiamo dentro il messaggio anche un modo di essere e di agire (un comportamento che faccia da esempio).
Dopo aver interiorizzato queste nozioni ho compreso la troppa semplicità con la quale attribuiamo giudizi alle altre persone: non penso ci sia niente di sbagliato nell’avere giudizio, penso che per farlo vadano considerate tutte le componenti e tutte le variabili (di cui sopra).