Rispolverando George Orwell: “1984”

Alla veneranda età di vent’anni mi sono lanciata nella lettura di due grandi classici: “1984” e “La fattoria degli animali”. Valgono la pena di essere definiti tali? Sicuramente li consiglio per rimettere in moto il neurone spaventato dal pensiero critico, c’è molto su cui riflettere.

La trama

Partiamo dal romanzo distopico “1984”: la trama è semplice quanto efficace. Winston Smith vive a Londra, che si trova in Oceania, una delle tre grandi potenze in cui il mondo è diviso. Tuttavia non è la Londra che conosciamo noi: è sudicia, vecchia, costantemente minacciata dalle bombe. La vita quotidiana è scandita tra lavoro, riunioni, noiosi intrattenimenti, non c’è posto per il pensiero libero o i sentimenti di amicizia, amore, solidarietà. Quello che Orwell descrive è un mondo controllato dai membri del Partito. Non c’è mossa che non sia compromettente, espressione facciale che non venga rilevata. Un mondo spaventoso in cui il peggior crimine che si possa immaginare è lo “psicoreato”, ovvero il non essere perfettamente in linea con il partito in tutto e per tutto. Come spiega la parola, non sono necessarie azioni per essere incriminati, basta averlo pensato (inconsciamente o meno).

Orwell racconta di una disperata storia d’amore, di una vita che non può essere considerata tale, ci offre uno spunto di riflessione per chiederci cosa possa essere definita esistenza, chi è degno di essere chiamato uomo, quali sono i limiti che si possono toccare prima di discendere in un oblio privo di emozioni. Un libro che avevo rimandato a lungo ma che, in mia difesa, va gustato consapevolemente.

Il mio post-1984

Lascerò da parte l’analisi scolastica per approfondire ciò che mi ha colpito maggiormente.

La libertà è schiavitù” è una delle frasi che mi ha colpito maggiormente. Il libro descrive la situazione in cui versano i cittadini. Non esiste libero arbitrio, non esiste la possibilità di scelta. Sono schiavi di un sistema che li usa finchè non pericolosi. Questo però li rende liberi di non essere, di non pensare, di non avere preoccupazioni o problemi. Mi sono chiesta se, senza accorgercene, non stiamo finendo in una teca piena d’ovatta dove quello che si cerca è il massimo risultato con il minimo sforzo. Spesso cerchiamo la soluzione facile che ci permetta di non pensare troppo, di non preoccuparci. Significa questo essere liberi? Evitare i problemi che richiedono uno sforzo mentale? Secondo Orwell, la schiavitù è essere liberi: perchè dover avere il peso del ibero arbitrio quando puoi vivere una serena esistenza da schiavo?

A quel punto la menzogna prescelta sarebbe passata nell’archivio permanente e sarebbe diventata verità“. Un aspetto interessante che viene approfondito nel romanzo è il controllo delle notizie, passate e presenti. Quando una notizia passata diventa scomoda, il Partito non esita a modificarla per renderla vera. Ogni edizione che non è coerente con la versione “corretta” viene ritirata e sostituita. In questo modo, il Partito ha sempre ragione, diventa infallibile e impossibile da contraddire. Questo comporta una manipolazione totale del pensiero: quando non è possibile fare paragoni non si ha un’opinione contrastante. Con che prove si può determinare che “prima si stava meglio”? Ne deriva un corollario rimasto famoso: “l’ignoranza è forza.

“Il potere è un fine, non un mezzo.”

Aveva capitolato, su questo non c’erano dubbi. Adesso capiva che in effetti era pronto ad arrendersi già prima di aver maturato una simile decisione“. Orwell non termina il libro con un messaggio di speranza e credo che la sua visione sia chiara: nessun uomo si può opporre davvero al dolore fisico e questo è il limite dell’essere umano. Chiunque cede a un certo punto, non se ne può fare una colpa. Anche i due amanti alla fine si tradiscono chiedendo all’aguzzino di fare all’altro del male. In un regime dove torture ed intimidazioni sono all’ordine del giorno è impossibile non cedere, prima o poi. Prima di leggere il finale, credevo fosse possibile resistere per un nobile ideale. Il post-Orwell mi ha invece lasciata con l’amaro in bocca. Quanto spesso noi umani ci siamo sopravvalutati? Quante volte abbiamo creduto in valori facili da professare ma impossibili da mettere in pratica?

Giada Annicchiarico