Il rapporto con la figura materna è stato oggetto di celebri poesie per i più famosi poeti italiani del Novecento.
Saba, Ungaretti, Montale, Pasolini e molti altri poeti italiani e non, sono accomunati dall’aver scritto poesie in onore delle defunte madri, declinandole ciascuno secondo la propria concezione religiosa o materialistica della vita.
UMBERTO SABA E LA SUA “PREGHIERA ALLA MADRE”
Apriamo questo excursus sulla figura materna con Umberto Saba che, nell’infanzia e nella vita, fu maggiormente legato alla balia che lo allevò e della quale prese poi il cognome. In “Preghiera alla madre” il poeta si rivolge alla genitrice defunta, rievocando la tristezza dei suoi anni adolescenziali ed esprimendo il desiderio di ricongiungersi a lei; la rimpiange ma non riesce a celare il rimpianto nei suoi confronti. Il componimento chiude la sezione “Cuore morituro” del “Canzoniere” e fu composto dopo l’inizio della terapia psicoanalitica di Saba. La poesia si apre proprio con le parole “Madre che ho fatto soffrire”, la stessa madre che ora, grazie alle sedute di psicoterapia, riaffiora nei ricordi nel tentativo di riordinare un turbinoso rapporto madre-figlio. Saba vorrebbe qui poter tornare bambino per conversare con la donna, ma lei è morta, perciò il fortissimo desiderio di annullarsi e morire scaturisce dallo stesso desiderio di incontrarla. Nella similitudine finale la madre è implicitamente paragonata alla “terra” che ha prodotto una “macchia”, la vita di suo figlio, che ora disperatamente le chiede di riassorbirlo in se stessa annullandolo nell’eternità della morte.
GIUSEPPE UNGARETTI CI RACCONTA DE “LA MADRE”
Subito dopo la morte della madre, nel 1930, Giuseppe Ungaretti compone questa poesia, indice di una spiccata concezione religiosa, dove la morte coincide con il confronto con Dio nella speranza di ottenere quella condizione di innocenza a cui aveva sempre aspirato. Interessante il confronto con la laicità che traspare dalla parole di Saba, Montale o Pasolini, legati invece ad una prospettiva terrena. “La madre” di Ungaretti è una mediatrice tra lui e lo stesso Dio: i due potranno ricongiungersi solo dopo il perdono divino del poeta, per la quale lei stessa intercederà “dicendo: Mio Dio, eccomi. E solo quando m’avrà perdonato, ti verrà desiderio di guardarmi”. Questo estremo gesto di amore nei confronti del figlio da parte della madre, grazie alla prospettiva che si evince dal testo, è stato associato ad un atteggiamento estremamente severo, entro cui la dimensione degli affetti è subordinata alla sfera dei valori morali.
EUGENIO MONTALE RIVOLGE UN ULTIMO PENSIERO “A MIA MADRE”
Correva l’anno 1942 quando Giuseppina Ricci, madre di Eugenio Montale, veniva trasportata sul letto di morte. La rielaborazione del lutto porta al ricordo, unico espediente per farla rimanere viva. In “A mia madre”, si trasforma un tema cristiano in chiave naturalistica, facendo numerosi riferimenti al mondo classico: la donna sopravvivrà alla morte ma nei Campi Elisi e non in un ipotetico paradiso. Se Ungaretti condivideva la fede religiosa con la madre e portava maggiormente l’attenzione sull’io lirico, Montale tace l’elemento emotivo, solamente intuibile, per trasferire i suoi dubbi sulla morte su un piano oggettivo ed emblematico che riguarda tutti gli uomini. La poesia si conclude con la domanda “che tu lasci anch’essa, un gesto tuo all’ombra delle croci”, domanda che sembra ipotizzare l’esistenza di una vita dopo la morte; questo interrogativo è della madre, non del poeta che è, anzi, estremamente attaccato alla materialità della persona, unico elemento per lui capace di generare il ricordo.
PIER PAOLO PASOLINI RIVOLGE LA “SUPPLICA A MIA MADRE”
Un rapporto molto diverso è quello che lega Pier Paolo Pasolini a sua madre, alla quale fu sempre estremamente legato. La madre dell’intellettuale fu sempre presente nella vita del figlio, per difenderlo dalla società che vedeva la diversità come una malattia e l’omosessualità come un tabù; ma è da questo legame, quasi morboso, che Pasolini desidera ora staccarsi: “Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data”. Egli sente il bisogno di confessarsi per recidere quel legame tanto stretto da imprigionarlo, “è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”. Il poeta vuole amare, vuole liberarsi, ma la sua “fame d’amore” non può essere saziata se la figura materna, nella sua mente, non si fa da parte, poiché “il tuo amore è la mia schiavitù”. Pasolini prega infine la donna di non essere triste poiché sarà sempre con lei, ma è solo con la sua assenza che può finalmente percorrere quel ponte che lo porta alla vita.