Lesa maestà al re tailadense: un caso che ci ricorda l’Impero Romano

In Tailandia Mongkol Thirakot, 30enne titolare di un webshop, è stato condannato a 50 anni di reclusione per alcuni post contro la famiglia reale. Qual è l’origine del reato di “lesa maestà”? Cerchiamo di capirlo attraverso due esempi antichi.

Ottaviano Augusto, Museo Nazionale Romano (Giuseppe Savo).

È recente la notizia per cui in Tailandia un giovane imprenditore è stato condannato per alcuni post su Facebook che avrebbero insultato e diffamato la famiglia reale. Il 30enne tailandese sarebbe colpevole di “lesa maestà”, un reato che accomuna tutti quei comportamenti diffamanti nei confronti della monarchia di uno stato e dei suoi rappresentati. Esso affonda le sue radici già nell’Impero Romano.

La maiestas e il crimen maiestatis

Il termine latino maiestas  può essere tradotto con “maestà, grandezza, autorità” ed era considerato una prerogativa della Repubblica e, per estensione, dell’intero popolo romano; il crimen maiestatis (che possiamo tradurre con “reato di lesa maestà”) era un delitto che accomunava gli abusi di potere dei magistrati nei confronti della Repubblica e che sfociavano, di conseguenza, nel danno alla dignità dei singoli cittadini. Con il passare del tempo, in età imperiale, il reato di lesa maestà andò a colpire tutti quei crimini che minavano la dignità e l’autorità del principe: come, ad esempio, l’oltraggio alla memoria degli imperatori defunti, la diffamazione del principe (o del principato) attraverso opere scritte, atti di vandalismo nei confronti di statue o immagini rappresentanti la famiglia imperiale. Augusto, nell’8 a.C., impegnato nel plasmare l’impianto giuridico e normativo del nascente principato, promulgò una legge che regolava i delitti di lesa maestà prevedendo la confisca del patrimonio e l’esilio dai territori romani per i condannati. La storiografia latina ci informa di alcuni casi in cui l’élite imperiale ricorse all’accusa di maiestatis per colpire certi personaggi invisi alla classe dirigente per le loro idee o per la loro condotta.

Sesterzio raffigurante l’imperatore Tiberio (Wikimedia Commons).

Cremuzio Cordo: uno storico condannato per lesa maestà

Publio Cornelio Tacito, massimo storico della latinità, racconta nei suoi Annales (IV, 34-35) della vicenda di Cremuzio Cordo, anch’egli storico, che s’imbattè in un processo per crimen maiestatis a causa di alcune sue affermazioni filorepubblicane. Durante il principato di Tiberio (14-37 d.C.) Cremuzio venne accusato da alcuni individui vicini a Seiano, sanguinario prefetto del pretorio dell’imperatore, per aver lodato i cesaricidi Bruto e Cassio e per aver definito questi “l’ultimo dei romani”. Affermazioni di tale genere erano in evidente contrasto con la nuova forma di governo di carattere autocratico e mostravano simpatie per due individui, di chiare tendenze repubblicane, che erano stati condannati (e uccisi) come nemici di Roma; lo storico venne processato e pronunciò un accorato discorso dinnazi all’imperatore Tiberio in cui si dichiarò innocente affermando che le sue parole non erano lesive nei confronti della famiglia imperiale e che, pertanto, non c’era motivo di un’accusa di lesa maestà. Cremuzio, prima ancora di ascoltare la sentenza di condanna, si suicidò e, in seguito, il Senato ordinò che le sue opere venissero bruciate per non consegnare ai posteri ritratti storici dal sapore filorepubblicano.

Trasea Peto: un oppositore alla condanna per lesa maestà

Ancora Tacito (Annales XIV, 48-49) testimonia un altro caso di crimen maiestatis perpetrato sotto il principato di Nerone (54-68 d.C.). Lo storico racconta di un pretore che durante un banchetto aveva dato lettura di alcuni suoi carmi di invettiva contro il principe e la sua corte; egli venne subito accusato e processato dal Senato per lesa maestà. Nel racconto di Tacito emerge la figura dell’oratore e politico Trasea Peto che, prendendo la parola davanti ai senatori, propose di non condannare a morte l’imputato ma di esiliarlo, dimostrando così indulgenza da parte dello stato e della classe dirigente romana. Nerone, furibondo, nonostante fosse stato particolarmente offeso dal comportamento del pretore, acconsentì all’esilio mostrando così al popolo la propria clemenza verso un reo confesso.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.