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Che cos’è l’anoressia?
Che cos’è l’anoressia? Può sembrare una domanda facile, facilissima se si vuole dare una risposta clinica e coincisa : l’anoressia è un disturbo del comportamento alimentare che porta un individuo a rifiutare il cibo per paura di ingrassare. In realtà l’anoressia non è un semplice disturbo, è una malattia che sopraggiunge per diversi motivi, spesso senza che il soggetto possa davvero rendersene conto o possa scegliere di evitarla. Ecco, l’anoressia è una malattia non una scelta, l’anoressia è una malattia d’amore e non una semplice malattia mentale, l’anoressia è una voce, una miriade di pensieri che s’insinuano vorticosamente nelle menti più fragili, più sensibili, ponendosi come la soluzione al male di vivere, ma l’anoressia è il male di vivere mostrato in una delle sue forme più violente. Ancora oggi i disturbi alimentari sono oggetto di studio poiché anche chi c’è passato, talvolta, ha difficoltà a spiegare come e sopratutto per quale esatto motivo l’anoressia ha preso posto nella propria esistenza. Quello che tutti raccontano è, però, un supplizio iniziato in silenzio, un supplizio che ha a che fare con traumi infantili ( episodi di bullismo, drammi familiari, mancanza di amicizia, mancanza di amore, lutti ecc..) le cui conseguenze si manifestano attraverso il bisogno di punirsi o di punire. Un supplizio strettamente collegato alla mancanza d’affetto e, per logica, alla necessità di sentirsi ” accettati”. L’anoressia è proprio questo: la necessità di scomparire e allo stesso tempo di essere visti.
Necessità di scomparire
Andiamo per ordine, perché necessità di scomparire? Come scritto prima, l’anoressia è spesso il risultato di episodi spiacevoli, di mancanze e privazioni. L’anoressia nasce lì dove si crea una senso d’inadeguatezza, disagio e paura dovuto all’ambiente circostante. Non sentirsi accettati, non sentirsi abbastanza, non avere buoni amici o, semplicemente, non sentirsi amati porta a chiedersi se c’è qualcosa di sbagliato negli altri e, spesso, quando la risposta non arriva ci si ritrova a porsi un ulteriore domanda: c’è qualcosa di sbagliato in me?. Coloro che soffrono di disturbi alimentari sono i cuori più sensibili, più amorevoli e allo stesso tempo le anime più tormentate poiché sono coloro che più cercano di capire il mondo che li circonda, che più si perdono ad analizzare la realtà. Sono quelli che possono essere feriti anche solo da uno sguardo fuggitivo dato da un passante in una giornata irrilevante : sono anime a cui non è stato dato modo di alimentare nient’altro se non un odio feroce verso se stessi, per non essere come tutti gli altri, per non essere abbastanza, per non essere perfetti. E allora cos’è giusto fare? Punirsi e punire. Punirsi annientandosi, sbriciolando il proprio essere, uccidendo quell’anima impura, imperfetta, quel corpo così distorto, così grasso, così brutto che non merita attenzioni, che non può meritare attenzioni perché è così brutto, è così grasso, è così distorto. Ma l’anoressia non è solo questo, non è solo il desiderio di essere magri, è talvolta il desiderio di non essere più, di scomparire perché la vita diventa ingombrante, la propria mente un labirinto velenoso dal quale non si può scappare; scomparire perché ci si convince che non si sarà mai amati, che non si merita di essere amati perché non si è abbastanza, perché non ci si ama ed è impossibile amarsi. Punirsi e punire. Punire anche gli altri per non aver amato, per non aver accettato, per non aver notato, c’è che descrive questo bisogno come la volontà di ferire chi ha ferito ” Se non mi vuoi, scompaio”
Necessità di essere visiti
L’anoressia è anche questo, la necessità di essere visiti per la prima volta. L’anoressia rincorre l’ideale della perfezione, attenzione però, non si parla della semplice voglia di avere un corpo da modella, si parla del bisogno di essere così perfetti da non dover più soffrire, perché nessuno potrà più muovere una critica, nessuno potrà più puntare il dito contro, nessuno potrà più trovare un motivo per non amare. La perfezione diventa l’obbiettivo da raggiungere per essere finalmente notati, per essere visiti, per diventare meritevoli di quell’amore che solo un corpo impeccabile può raggiungere. Ma la perfezione non esiste, è ancor meno la si può raggiungere entrando nel calvario delle malattie mentali. Perché si, l’anoressia non è una malattia del corpo, come molti possono pensare, si può soffrirne anche se il proprio fisico appare nella norma, anche se non si ha gambe scheletriche, l’anoressia è una malattia della mente che si serve del corpo solo per manifestarsi all’esterno. Tutto prende forma proprio lì, nella mente, diventando un pallino, spesso una voce, che impedisce a chi ne soffre di liberarsene nel corso di ogni singolo giorno . L’anoressia è una trappola che convince, piano piano, a privarsi di tutto, dal cibo alla vita intera, portando il soggetto a credere che solo così si riceveranno quelle attenzioni, quelle premure che non si avevano prima.
Tra ossessione e senso di colpa
L’anoressia è un arma a doppio taglio, non è il rifiuto del cibo ma l’ossessione stessa del cibo. Coloro che soffrono di disturbi alimentari hanno un unico pensiero che occupa giornalmente i loro pensieri : il cibo. Tutto, tutto del cibo attrae, il suo profumo, le sue calorie, i suoi ingredienti, l’aspetto, il sapore, lo spessore, la forma, la tipologia. La mente diventa una calcolatrice a portata di mano, in grado di sottrarre, aggiungere, dividere, moltiplicare, tutto, tutto pur di assicurarsi d’aver ingerito una quantità minima di cibo, e più lo si evita, più lo si desidera, più lo si desidera, più ci si avvicina a compiere l’agognato gesto : cedere, cedere e portare quel morso alla bocca ingurgitandolo prima che i pensieri possano prendere il sopravvento. Panico. Paura. Delirio. Quando questo accade, il senso di colpa inizia a divorare l’anima, ci si sente “sporchi” per aver quasi inquinato quel corpo ancora troppo imperfetto. La soluzione? Trovare il modo più efficace per bruciare calorie, il che più delle volte significa sottoporsi ad un esercizio fisico stremante, che dura ore, in qualsiasi momento della giornata, si corre a stomaco vuoto, a stomaco pieno, si corre anche se fa male, anche se fa freddo, anche se si vorrebbe morire o anche se non si ha la forza. Si corre, perché è giusto, perché bisogna assopire il senso di colpa, perché bisogna continuare a raggiungere l’obbiettivo . Il risultato? Un ciclo vizioso dal quale si esce a fatica, perché non si è mai abbastanza magri o abbastanza malati. Non si è mai abbastanza.
To The Bone
La scorsa estate Netflix ha rilasciato un piccolo film indipendente “To The Bone” con un cast stellare dove la protagonista, interpretata dall’attrice Lily Collins, è una giovane donna bloccata del vortice dei disturbi alimentari. Passata da ben quattro centri di recupero, solo per continuare ad ammalarsi di più, decide di provare un ultima volta a salvarsi dalla malattia che ha occupato buona parte dei suoi anni di gioventù. L’ultima risorsa sta nel ricovero volontario in un centro di riabilitazione gestito da un dottore, Dr William Beckham (Keanu Reeves), il quale tratta i disturbi alimentari andando alla radice del problema: costringere i pazienti ad affrontare se stessi. L’anoressia è, infatti, descritta come una fuga, un rifugio dal problemi dell’esistenza. Nella clinica, Ellen (Lily Collins) deve fare i conti non solo con i difficili rapporti all’interno della sua famiglia disfunzionale, ma sopratutto deve affrontare le diverse realtà degli altri pazienti. Incontra Luke, un ballerino ritirato dalle scene a causa della malattia, incontra una ragazza che perde suo figlio a causa della malattia, incontra ragazzi e ragazze costretti ad affrontare i propri demoni, le proprie debolezze e che allo stesso tempo riescono a fare dei propri “difetti” un potere. “Non sono più una persona, sono un problema” afferma Ellen durante una terapia famigliare, da cui si scoprono i problemi con una madre assente, un padre spaventato, una sorella che si sente oscurata dalla malattia della ragazza, tutti problemi da cui la giovane cerca di scappare lasciando che la fame le scavi dentro. La sua è, però, non solo una fame d’amore ma sopratutto una fame di vita. Una delle scene più significative del film vede il gruppo di ragazzi ballare sotto un getto d’acqua come metafora della vita ” Smettila di aspettare che la vita diventi più facile o che qualcuno venga a salvarti. Scegli te stessa” questo il suggerimento di Dr Beckham. Ma questo è un film che mostra anche quanto stretta possa essere la morsa dell’anoressia Ellen, infatti, in preda ad una turbina d’emozioni scappa dalla clinica per raggiungere sua madre. L’ultima scena vede un rapporto pieno di rimorsi, causa del disturbo della giovane, un rapporto difficile da ricucire ed, ancora, doloroso. Nonostante ciò, Ellen lascia la casa della madre ritrovandosi da sola di notte mentre pensa alla vita di cui si è privata, e finalmente sceglie se stessa, sceglie di tornare alla clinica in cui non l’aspettavano più, sceglie di tornare a curarsi, sceglie di darsi la possibilità di amare Luke, ma sopratutto sceglie di lasciarsi amare e di amarsi.
Pensieri
Alla fine di questo percorso ho voluto raccogliere qualche riga da chi questa malattia l’ha conosciuta bene :
“Avete mai avuto il coraggio di dire no? No ai genitori, no all’alcol, no non mi va, no grazie. No grazie, non ho fame.
“Non ho fame” era quello che mi ripetevo, non ho bisogno di niente, non ho bisogno di sentire niente. Non voglio il cibo cucinato da mia madre, lo stesso che mangia mio padre. Volevo essere libera, volevo non sentire le mancanze, volevo 38 minuti di silenzio, 38 kg di invisibile perfezione.
Mi ero convinta di poter diventare perfetta una volta raggiunto un peso da farfalla, l’alunna perfetta, la fidanzata perfetta, la figlia e sorella perfetta.
Sono passati anni, anni di alti e bassi, anni di lacrime, dolore, parole che finalmente hanno trovato la forza di uscire.
Dietro al mio “no, non ho fame” si nascondeva una fame infinita di affetto, l’amore di mia madre.
Mi ci sono voluti anni per capire di aver commesso l’errore di confondere mio padre e di avergli dato il ruolo anche di madre, indirizzando verso di lui tutto il mio dolore.
Ma di me e del mio passato non vorrei cambiare nulla, la mia malattia -ed oggi che ne sono uscita lo posso dire- è servita come insegnamento, ogni volta che vedo la forza negli occhi di mia sorella e la nostra complicità capisco di averla aiutata a crescere.
E sono cresciuta anch’io, non ho più un peso da farfalla ma solo grandi ali per volare verso la mia vita.” – (Sofia Matteoni)
Ariana Ciraci