Il tema della morte affrontato da un poeta che sta per suicidarsi e dal cantautore della fragilità umana.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” di Cesare Pavese e “La morte” di Fabrizio De André presentano svariati punti di contatto e svelano il cinismo e l’ineluttabilità del destino.
“PER TUTTI LA MORTE HA UNO SGUARDO”
Il 22 marzo 1950, Cesare Pavese dava vita ad una delle liriche più cupe e affascinanti riguardanti la dicotomia amore-morte, “archetipo ancestrale” di cui parlava già ne “Il mestiere di vivere”. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” è la quarta poesia dell’omonima raccolta, pubblicata postuma nel 1951. La poesia, come le altre della silloge, è dedicata all’attrice americana Constance Dowling che il poeta aveva avuto modo di conoscere a Roma e per la quale era animato da un amore non corrisposto. A differenza degli altri componimenti della raccolta, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” è unica per il tono cupo e triste che annuncia l’imminente suicidio del suo autore, avvenuto il 27 agosto 1950 a Torino. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo” la prima frase ci spiega come la mente dell’autore sia costantemente proiettata verso la morte: essa è ormai un tarlo che logora i pensieri di Pavese e che non potrà essere scacciato se non con l’effettivo realizzarsi del suicidio a cui tanto anela in questi versi. “Per tutti la morte ha uno sguardo” e per il poeta gli occhi dell’amata sono proprio il mezzo tramite il quale arriverà questa morte, spirituale e poetica oltre che fisica. Con questo sguardo familiare e confortevole per il poeta la discesa negli inferi sarà meno tediosa e dolorosa. Dopo tanti anni trascorsi con l’irrespingibile desiderio di morire, finalmente, Pavese sta per raggiungere la pace: se l’unico modo per scacciare un vizio è cedervi, solo con il suicidio Pavese potrà porre fine alla sua silenziosa agonia e “scendere nel gorgo” muto.
DI FRONTE ALL’ESTREMA NEMICA NON VALE CORAGGIO O FATICA
Ad ispirarsi alla poesia di Pavese fu niente meno che Fabrizio De André: nel suo primo album di inediti, “Volume 1”, pubblicato nel 1967, trova infatti posto la canzone “La morte”. “La morte verrà all’improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi”, questo è il primo verso: il richiamo a Pavese è esplicito. Ma per quanto la morte possa avere uno sguardo noto essa non guarda in faccia a nessuno, sopraggiunge senza preavviso, “la morte va a colpo sicuro, non suona né il corno né il tamburo”. La morte è qui amica o nemica? Tutto dipende dal tempo trascorso in vita: “prelati, notabili e conti sull’uscio piangeste ben forte, chi ben condusse sua vita male sopporterà sua morte” mentre “straccioni che senza vergogna portaste il cilicio o la gogna pentirvene non fu fatica perché la morte vi fu amica”; ai guerrieri poi si appella dicendo “non serve coraggio o fatica, non serve colpirla nel cuore, perché la morte mai non muore”.
TRA NASCITA E MORTE BISOGNA SOLO GODERSI L’INTERVALLO
La Morte, tanto in Pavese quanto in De André, è una figura silente e che trasmette un’aura di incomunicabilità. Non parla ma falcia soltanto vite: la differenza tra vivi e morti è proprio questa, mentre i primi scalpitano, predicano, urlano e combattono, nel regno dei morti non si parla e tutti “scenderemo nel gorgo muti”. La bellezza e la maestosità che caratterizzano entrambi i componimenti nascono proprio dal presagio di una morte imminente che, tramite un linguaggio chiaro e asciutto, prende forma sotto gli occhi del lettore e si materializza nella mente dell’ascoltatore.