Einstein, Dalla e la “Dialettica dell’immaginario”: come la fantasia ci cambia la vita

“La logica ci porta da A a B. L’immaginazione ci porta ovunque”. Una delle più celebri frasi di Albert Einstein, probabilmente il fisico maggiormente conosciuto e venerato di tutti i tempi, vede come protagonista proprio il trionfo dell’irrazionalità e dell’astratto, l’immaginazione, quella forza innata nell’uomo e strettamente connaturata alla sua inappagabile necessità di vita che Charles Baudelaire amava definire “regina del vero”. Lo stesso matematico sopracitato, poi, scriveva ancora che essa è addirittura più importante della conoscenza, poiché la conoscenza è limitata, l’immaginazione, invece, circonda il mondo.

immaginazione
Albert Einstein

Semplice e banalissima retorica? Ebbene, ad oggi scienza e psicologia rendono giustizia ai pensieri più filosofici del più razionale dei matematici, riconoscendo proprio all’immaginazione il potere di liberare l’uomo dalle paure, quell’uomo da sempre funambolo tra apollineo e dionisiaco, quell’uomo che sin dalla notte dei tempi ama barcamenarsi tra sogno e realtà, paladino di un romanticismo perenne che non è “malattia”, come affermato da Benedetto Croce, ma balsamo che cura l’animo e ineguagliabile strumento per investigare il reale.

Come funziona la fantasia?

La psicologia la studia da circa un secolo, eppure la fantasia è parte integrante dell’uomo e rappresenta uno dei suoi istinti primordiali, tanto da diventare, in seno lato, quasi sinonimo stesso di infanzia.

I bambini sognano di volare e di essere depositari di improbabili e straordinari poteri quali diventare invisibili, spostare oggetti con il solo pensiero e materializzare quelli di cui non possono disporre. Per non parlare del classico “amico immaginario”, che secondo gli studi della psicologa americana Marjorie Taylor è il compagno di giochi del 60% dei pargoli.

Allo stesso modo, nell’“infanzia della storia”, gli uomini primitivi pensavano di controllare la natura attraverso rituali come la danza della pioggia ed avevano fiducia cieca in credenze magiche.

Eppure, a dispetto di questo, l’immaginazione non ha avuto diritto di cittadinanza nel panorama medico e scientifico fino all’epoca moderna.

Tra i primi a ricercare e riconoscere i meccanismi psicologici della fantasia vi è il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud, il quale le conferì grande importanza nella nostra dimensione mentale: egli sosteneva che la fantasia rappresenta il modo per esprimere bisogni insoddisfatti che altrimenti non potrebbero emergere.

Sigmund Freud a lavoro.

Se l’uomo tende al piacere e la quotidianità oppone resistenza alle sue aspettative con crudo, insensibile e pragmatico disincanto presentando senza filtri una realtà talvolta amara e indesiderata, l’immaginazione è consolatrice degli affanni più terribili, antidoto agli errori più irrimediabili e mitigatrice delle ansie più invalidanti: tutto resta sospeso a mezz’aria e sbiadisce lì dove la libertà di pensiero è il superamento assoluto di ogni canone e preconcetto ed ogni cosa può essere deliberatamente mutata di forma e colore.

L’immaginazione è perciò, in buona sostanza, uno strumento di sopravvivenza: rinunciando ad essa non potremmo concepire alternative al presente, prefigurarci scenari per il futuro, rivivere quelli più significativi del passato.

Non solo. La nostra mente è l’unico contenitore impenetrabile all’indiscrezione altrui, un libro fitto di righe e postille di cui noi soli conosciamo la chiave di lettura autentica, il teatro privato in cui i nostri pensieri prendono forma e inscenano quanto di più intimo desideriamo vedere, percepire, vivere.

E, a meno che non decidiamo di aprire lo spettacolo che si consuma sul nostro “palcoscenico interiore” ad un pubblico più o meno vasto a cui decidiamo di fare generosamente dono della nostra prepotente intelligenza creativa, esso resterà esclusivamente confinato lì dove non esistono regole e orizzonti se non quelli che siamo noi a voler porre e a proporci di superare.

L’immaginazione come antidoto alle paure

Oggi, tuttavia, un’altra potenzialità altissima è stata attribuita alla fantasia: secondo recenti studi, immaginare ciò che ci incute timore in una situazione di tranquillità può aiutarci a superare tale paura.

Lo studio in questione è quello pubblicato sulla rivista Neuron e gli scienziati che lo hanno curato affermano, appunto, che l’estinzione della paura attraverso la progressiva desensibilizzazione dal ricordo traumatico (una tecnica spesso usata nella psicoterapia) può avvenire anche immaginando lo stimolo, dunque, non solo esponendosi realmente ad esso.

La scoperta di fatto conferma, a livello neurofisiologico, un fenomeno che gli psicologi clinici osservano da tempo e sfruttano già con successo sui loro pazienti.

Il cervello umano apprende in fretta la paura, associando un evento negativo al ricordo di un’esperienza spiacevole. In seguito, ogni volta che un suono o un indizio visivo rievocano quel vissuto, si percepiscono le medesime sensazioni di panico e disagio.

Nel caso di ricordi particolarmente traumatici e ricorrenti, questi flash-back possono diventare debilitanti.

Una delle strade più efficaci per sbarazzarsene è imparare ad associare quegli stessi stimoli a ricordi non spiacevoli, attraverso una graduale e controllata esposizione ad essi (per esempio sfruttando l’udito) in contesti sicuri e con l’aiuto di uno psicoterapeuta.

Quella in questione rappresenta una scoperta quasi “rivoluzionaria”. Non sempre, infatti, far rivivere un’esperienza paurosa è semplice o moralmente auspicabile: basti penare a chi soffre per il ricordo di momenti vissuti in guerra o in un incidente stradale.

A maggior ragione in questi casi, anche in ambito clinico si può fare ricorso con successo all’immaginazione.

Imparare e superare, ricordarsi di non dimenticare

Analogamente, è indispensabile sottolineare che superare la paura derivata da un ricordo non significa rinunciare alla propria memoria, poiché porre in questi termini l’approccio con questa strategica applicazione dell’immaginazione vorrebbe dire renderla eticamente inaccettabile.

Come sostenuto da Nietzsche, infatti, per quanto dolorosi essi siano, i ricordi sono ciò che conferiscono umanità all’uomo stesso e consentono a questo animale bipede di crescere interiormente e realizzare il suo Essere.

Pertanto, rinunciare ad un ricordo significa rinunciare ad una parte di sé e rinunciare ad una parte di sé significherebbe ineluttabilmente mutare la propria forma e la propria sostanza, a vantaggio di un Essere neonato redento ma monco, incompleto, insufficiente.

Con un sillogismo, allora, ne deriva che rinunciare ad un ricordo si traduce in un impoverimento della propria persona, oltre che in una spersonalizzazione che è violenza nei confronti di sé e della propria Storia.

La “Dialettica dell’immaginario” di Lucio Dalla: il testo di “Cara” come storia di tutte le Storie

“Dialettica dell’immaginario” è un titolo che a molti può non voler dire nulla, eppure è proprio così che Lucio Dalla voleva intitolare la sua canzone “Cara”.

Al brano in questione è affidato il libero flusso di pensieri confusi che si susseguono sfocati nella mente di un uomo, il quale fa valere il fascino della propria età per sedurre una ragazza molto più giovane di lui (“per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento”) sullo sfondo di un notturno lunare: “la notte ha il suo profumo, puoi cascarci dentro”. Ad essere decisamente poco edificante è l’intento che motiva questo approccio e la disposizione d’animo dell’uomo ad ingannare la ragazza pur di guadagnarsi le sue simpatie: “per uno come me, poveretto, che voleva prenderti per mano e cascare dentro un letto… Che pena che nostalgia, non guardarti negli occhi e dirti un’altra bugia…”.

Mentre egli fa professione di seduttore, però, inizia a comprendere che il confine tra interesse sensuale e sentimento può essere assai sottile e finisce con l’assottigliarsi completamente nel momento in cui si assottigliano le distanze che lo separano dall’oggetto dei suoi desideri: “debbo stare attento a non cadere nel vino o finir dentro ai tuoi occhi se mi vieni più vicino”.

Tuttavia, i vani intenti di scongiurare il pericolo di un coinvolgimento emotivo falliscono e quello che doveva essere solo un gioco fondato sulla mera attrazione fisica si trasforma in una condanna per il protagonista, Don Giovanni di kierkegaardiana memoria, che resta imbrigliato nella sua stessa rete, mentre la giovane ragazza corre dietro al vento spensierata e “sembra una farfalla”.

Dopo uno slancio d’orgoglio che lo porta ad affermare di non aver approfittato appieno del proprio ascendente quando avrebbe potuto (“ricorda che a quel muro t’avrei potuta inchiodare se non fossi uscito fuori per provare anch’io a volare”), teneramente si crogiola nel rimorso di un miraggio svanito, reso ancora più doloroso per via dell’indifferenza della giovane: “io che qui sto morendo… e tu che mangi il gelato”.

Ormai, la notte volge al termine e con il sole che sorge cadrà ogni maschera ed avrà compimento lo svelamento di ogni illusione: “La notte sta morendo ed è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo”.

La soluzione è allora paragonare tutto ad un sogno ed assopirsi alle prime luci dell’alba: “Buonanotte, anima mia, adesso spengo la luce e così sia”.

Lucio Dalla

Perché questo testo è la cronaca di noi? Ciascuno, come il latin lover della canzone di Dalla, talvolta ama diluire la realtà amalgamandola con la fantasia ed è per questo che l’immaginazione ci salva e ci tormenta, ci redime e ci condanna, smussa le punte più spigolose della realtà e affila i pensieri che ci punzecchiano la coscienza, quella coscienza che sola può costituire gli argini oltre i quali la fantasia non può e non deve degenerare.

La ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere

In conclusione, c’è un filo rosso che collega Einstein e Dalla, la scienza e la fantasia, l’immaginazione e la prassi, ed è quello stesso filo che Italo Calvino individuava nelle Lezioni americane come legame tra Lucrezio, l’atomismo, la filosofia dell’amore di Cavalcanti, la magia rinascimentale, Cyrano: la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere.

Italo Calvino

Regalarci il privilegio di avere la testa tra le nuvole non vuol dire, allora, rinunciare ad avere i piedi per terra, e cedere ad un sogno non significa,in quest’ottica, perdersi in un Iperuranio fallace ma ritrovarsi in una realtà ancora più autentica.

L’immaginazione non è altro che uno strumento: come ogni utensile che si rispetti, dobbiamo educarci ad utilizzarlo correttamente, altrimenti potrebbe costituire un’arma a doppio taglio.

Alla leggerezza, allo stesso modo, bisogna saper dare il giusto peso.

Riprendendo ancora una volta Calvino, dunque: “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.

Mariachiara Longo

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